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Una conquista per nulla scontata

Ci sono giornate che scorrono come molte altre. Ci sono invece giorni che valgono anni, e la giornata del 3 febbraio per noi di anni ne è valsi molti. Era iniziata bene, eravamo nel centro di Beirut, tra clacson e smog, fermi a un bar ad attendere la notizia, “l’ok” scritto in un messaggio di WhatsApp da parte di Maria Quinto che era andata a parlare con le autorità libanesi. Avevamo tutto: i visti per motivi umanitari delle autorità italiane, i biglietti aerei, il nostro amico tassista Bayan pronto per andare a Tripoli a prendere la famiglia scappata tre anni prima da Homs e che aspettava con ansia il via libera per fare le valigie per partire per l’Italia. Avevamo tutto, mancava solo quell’OK, il via libera da parte delle autorità libanesi. La sera prima c’eravamo lasciati dicendoci che ormai era fatta. Che lo scoglio più grande era passato.

Ma questa storia non era iniziata in questa giornata di febbraio, era iniziata molto prima, quando era arrivata una mail che raccontava la storia di una bambina siriana di nome Falak, scappata dalla guerra, e malata di retinoblastoma, che viveva in un garage di Tripoli, nel nord del Libano, non lontano dal confine siriano. La storia era arrivata a noi dall’isola di Lesbo, come una pallina di pingpong che rimbalza tra attivisti della frontiera. A raccontarla era stato uno zio di Falak che era arrivato con un gommone nell’isola greca. Avevamo deciso così di partire, quasi di corsa, i primi di gennaio e andare a trovare la famiglia che viveva a Tripoli. E lì avevamo deciso che occorreva fare di tutto per poter portare Falak, suo fratello e i suoi genitori in Italia.

Il tempo intanto era passato, e Falak, dopo l’intervento che le ha asportato l’occhio sinistro, aveva bisogno di iniziare la chemioterapia. Ma in Libano la cura avrebbe dovuto pagarla la famiglia. Cosa per loro impossibile. Solo attraverso i corridoi umanitari si poteva aprire un varco per salvarla. Il 3 febbraio sembrava tutto risolto, e le ansie accumulate per più di un mese sembravano sparite.

Mancava solo quell’OK.

Ci si è gelato il sangue invece quando abbiamo letto che il padre non poteva più partire, che c’era un problema nel visto, e che quindi la famiglia si sarebbe dovuta dividere. Mamma e figlia sarebbero intanto andate avanti, padre e figlioletto sarebbero seguiti. Non è uno scherzo fare un salto nel futuro per una famiglia siriana, nemmeno quando c’è la guerra dietro le spalle che ti distrugge casa, nemmeno se fai di tutto per curare Falak e vivi in un garage. Non è semplice perché migrare vuol dire lasciare tutto alle spalle e iniziare una nuova vita, e dividersi nel momento del salto della frontiera è cosa drammatica.

Li abbiamo visti piangere salutandosi, abbiamo condiviso le loro preoccupazioni, Bayan è stato molto di più che un tassista, è stato un pezzo di umanità incontrata per strada che ha saputo darci una mano. “Basterebbe poco” ci diciamo, tra noi. Ci facciamo forza perché questo progetto dei corridoi umanitari apre un varco nella frontiera europea, ed è un progetto che potrebbe aprire un dibattito politico enorme. Eppure davanti a queste storie mastichiamo amaro. Le ore passano e la giornata sembra finire così, come quando ti pareggiano all’ultimo minuto. Mentre beviamo l’ultimo caffè turco di una infinita serie però, riceviamo la notizia inaspettata, c’è il via libera anche per il padre! Anche lui ha il visto! Ma è tardi ormai, le agenzie per prenotare gli aerei sono chiuse, e Tripoli è lontana da Beirut. Decidiamo di provarci comunque, prenotiamo il biglietto aereo con l’iphone sfruttando la rete wifi del bar, andiamo a prendere il visto di corsa e chiamiamo il padre dicendogli di prendere le sue cose, prendere un taxi e raggiungerci a Beirut. Non avendo il visto con se potrebbe essere fermato lungo il percorso, e potrebbe essere portato in commissariato per gli accertamenti. Così lo chiamiamo ogni venti minuti, il suo viaggio sembra interminabile, ma alla fine, nel pieno della notte, arriva insieme a Hussein, il fratellino di Falak.

Saliamo nel suo taxi sgangherato con un tassista di Tripoli che non conosce le strade di Beirut ed impiega due ore per trovare l’albergo di Falak e della madre. Il tempo di farsi una doccia, e siamo in aeroporto, pronti per partire. “Che giornata!” ci diciamo tra noi, mentre le luci di Beirut ci salutano, che giornata… Passare questa frontiera ci sembra un rito, fatto di mille prove, ostacoli, emozioni, ed ogni volta che dentro l’aeroporto passiamo un controllo sembra che questa famiglia perda qualcosa e guadagni qualcos’altro.

Quando l’aereo prende il volo Falak e suo fratello ridono, li disegniamo che volano sopra una piuma che passa la frontiera, Falak inizia a colorare il disegno, mentre sua madre scrive la richiesta di asilo che presenteranno a breve alle autorità italiane.

A Fiumicino gli ultimi controlli, le ultime paure cadono dietro le spalle, si apre una nuova vita, e l’abbraccio dello zio di Falak arrivato di corsa dalla Germania è una sorpresa enorme che emoziona tutti. Ce l’hanno fatta, ci diciamo con gli occhi gonfi, ma che giornata…