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L’Europa alla prova dei confini

La giornata di ieri è stata caratterizzata, come accaduto di frequente, da varie tensioni lungo la cosiddetta “rotta balcanica”, il percorso seguito da gran parte delle persone in fuga dalla guerra in Siria e Iraq e alla ricerca di una nuova vita in Europa. Da un lato la minaccia del presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, di aprire completamente il proprio confine con l’Europa se non dovessero essere soddisfatte le sue richieste politiche ed economiche rivolte ai paesi occidentali, dall’altra la rapida decisione della Nato sulla mobilitazione di una squadra navale nel Mar Egeo per fermare il traffico di esseri umani.

Queste due vicende si sommano all’ultimatum rivolto lunedì dalla Commissione europea nei confronti della Grecia, colpevole secondo Bruxelles di non provvedere correttamente al controllo dei proprio confini, e forse proprio a causa delle mancanze di Atene questa settimana è cominciata in Macedonia la costruzione di una seconda barriera lungo il confine greco, nel tentativo, finora infruttuoso, di arginare il flusso di profughi.

Tutte queste decisioni, prese o minacciate, sono accomunate da un comune sentimento, quello di considerare i profughi un problema e non soltanto una tragica conseguenza dei conflitti che segnano il Medio Oriente, un approccio che sembra mettere in discussione quel sistema di valori che l’Europa aveva costruito nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale. Ci troviamo in una fase nella quale il concetto stesso di Europa viene messo in discussione, e molte delle scelte che potranno determinare il futuro dell’Unione passano attraverso i Balcani. Secondo Stefano Lusa, caporedattore del programma informativo di Radio Capodistria, emittente pubblica slovena, il rafforzamento del confine macedone «era già da tempo nell’aria insieme all’idea di chiudere la rotta balcanica. C’è una pressione sempre più alta verso questi paesi».

C’è stata una svolta a un certo punto?

«Subito dopo gli attentati di Parigi la Macedonia aveva deciso di lasciar passare soltanto i cittadini siriani, afghani e iracheni. Insomma, la porta si era chiusa per una parte degli immigrati, per una parte dei profughi, anche se i macedoni avevano fatto capire che in realtà non era soltanto una loro idea. Ora potrebbero chiudersi altre porte, perché c’è la sensazione che i paesi e anche il punto d’arrivo, la Germania, vogliano fare qualcosa per diminuire il flusso di profughi».

Il fatto è che il problema non riguarda soltanto i Balcani meridionali, ma tutta l’area. Come si riflette sul nord?

«La scorsa settimana il ministro degli esteri sloveno, Karl Erjavec, ha detto una frase significativa: “la primavera sta arrivando, questo vuol dire che i flussi migratori potrebbero aumentare e c’è bisogno di un accordo a livello europeo per salvare il trattato di Schengen, ma anche di un accordo a livello europeo per evitare che gli stati facciano da soli”. Quello che si percepisce è che se non verrà trovata una soluzione, se non ci sarà un’intesa, ognuno farà da solo, penserà ai propri interessi. L’ha detto ancora più chiaramente il ministro degli esteri austriaco, Sebastian Kurz, secondo cui se la barriera non verrà messa tra Grecia e Macedonia nel peggiore dei casi potrebbe essere messa tra Austria e Slovenia.

Tutto dipende ovviamente dalla Germania e da quanto Berlino è ancora disposta a far entrare profughi, mentre quello che è certo è che i paesi dell’est Europa non hanno nessuna voglia di prendersi i rifugiati che vengono dalla Siria e anche da altre parti dell’Africa o dell’Asia».

A novembre avevamo raccontato la “voglia di muri” alle porte dell’Unione europea. Questa tendenza si è accentuata da allora?

«Sì. Credo però che in realtà la voglia di muri cominci a sentirsi un po’ dappertutto. Pensiamo al caso danese, dov’è stata modificata la normativa che regola l’accoglienza, introducendo la confisca dei beni dei profughi che superano i 1.300 euro per provvedere alla loro sussistenza: se avessimo detto l’anno scorso che un provvedimento simile potesse essere adottato da Copenhagen ci avrebbero presi per pazzi. Cresce la voglia di muri, e la soluzione che aveva adottato il presidente unghese Orbán, quella di costruire delle barriere a difesa del confine di Schengen, di mettere dei reticoli di filo spinato, e che all’inizio era stata vista come una cosa terribile, tutto sommato oggi appare assolutamente accettabile».

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Foto via Pixabay

Accettabile e soprattutto riprodotta anche in altri paesi. Dove sta il problema?

«L’Austria al confine con la Slovenia sta tirando su una barriera, che non è ancora piena di filo spinato come quella tra Macedonia e Grecia, però che non è tutto sommato molto dissimile, mentre la Slovenia ha srotolato il filo spinato al confine con la Croazia. Tuttavia c’è la sensazione che ancora una volta la Grecia sia considerata la “colpevole” di tutto. Prima era colpevole di non aver saputo gestire la crisi economica, di non aver saputo tenere sotto controllo i debiti e così via e oggi è accusata di non saper tenere sotto controllo il flusso dei migranti che arrivano. Ovviamente, la domanda che ci si può porre a questo punto è se l’Unione europea o i paesi che stanno criticando la Grecia stanno dicendo ai greci che devono lasciare in mare i profughi che tentano di sbarcare sulle loro isole dalla Turchia».

Si sta progressivamente cercando di “allontanare” geograficamente e politicamente il fenomeno delle migrazioni, nel senso che ora si parla moltissimo di nuovo degli accordi con la Turchia, quindi arriviamo molto vicini al punto di partenza. Non crede però che questa logica da parte europea non faccia altro che negare l’inevitabile, ovvero il dover fare i conti con una società che migra?

«Probabilmente nell’Unione Europea nessuno pensava alle dimensioni di questo fenomeno, e probabilmente anche la stessa cancelliera tedesca Merkel, quando in qualche modo ha aperto le porte e ha detto chiaramente che ci sarebbe stata accoglienza, probabilmente pensava di venir seguita anche dagli altri paesi europei, sperava insomma in un maggiore slancio verso l’accoglienza, ma così non è stato».

In realtà il problema, oltre che nell’applicazione, sta anche nella logica: con l’idea dell’asilo in base soltanto alla nazionalità si rinuncia al concetto di universalità dei diritti che abbiamo, molto faticosamente, costruito in Europa.

«Sì, l’idea di considerare persone che scappano dalla guerra o comunque persone che sono in pericolo soltanto quelle che provengono da alcuni paesi porta alla sospensione di fatto dell’idea della tutela e del diritto d’asilo come diritto individuale.

Per esempio, oggi è il giorno dei funerali di Giulio Regeni, il giornalista ucciso in Egitto, e proprio per le modalità di quello che è successo lì è difficile dire che oggi l’Egitto sia un paese sicuro, o comunque non è di certo un paese sicuro per alcune categorie di persone, come quelle che contestano il regime di Al-Sisi. Ecco, siamo di fronte a una riflessione generale che dovremmo compiere, e il pericolo è che ci si chiuda in qualche modo negli egoismi nazionali, e anche il pericolo è che ritorni un’età dei nazionalismi che in Europa e con L’unione europea credevamo in qualche modo di esserci lasciati alle spalle».

In un recente articolo, pubblicato a fine gennaio sul sito dell’Osservatorio Balcani e Caucaso, lei prende in prestito dall’intellettuale croato Predrag Matvejević il termine “democrature”, che lui aveva riferito al regime del presidente croato Franjo Tuđman. Come si applica all’Europa di oggi?

«Dobbiamo guardare a quanto sta accadendo a est, in particolare in Polonia o in Ungheria, dove possiamo vedere che ci troviamo di fronte a democrazie a carattere alquanto autoritario: ci troviamo di fronte a paesi dove in qualche modo possiamo anche usare il termine di “dittature della maggioranza”, perché, non essendo ancora radicato nella società civile il concetto dei diritti individuali, politiche anti-migranti come per esempio quelle di Orbán, tra cui il muro costruito ai confini di Schengen, hanno un amplissimo consenso popolare in questi paesi. Oggi nell’est Europa i governi che dicono di non volere i profughi ottengono un consenso vastissimo nell’opinione pubblica. Se a questo aggiungiamo il controllo dei media, e quindi un ulteriore tentativo di orientare le opinioni, possiamo dire che l’est Europa non sta vivendo un momento felice. Si credeva e si pensava che con il crollo del comunismo questi paesi sarebbero diventati in tutto e per tutto simili a quelli occidentali, ma in realtà vediamo che probabilmente non è così, e anche forse il concetto di democrazia a est è un po’ diverso rispetto a quanto lo sia in Occidente. Siamo in un periodo difficile per l’Unione europea, siamo di fronte a scelte difficili, perché tutto l’impianto in questo momento sta correndo un rischio serio».

Foto By Borut Podgoršek, MORS – http://www.mo.gov.si/si/medijsko_sredisce/novica/article/1328/7573/, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=44999705