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Le chiese contro l’ergastolo

Il 6 febbraio si terrà presso la chiesa valdese di Firenze una Giornata ecumenica di preghiera: «Le chiese cristiane contro l’ergastolo». Già da tempo le chiese evangeliche si sono espresse per l’abolizione della pena dell’ergastolo in Italia. In vista dell’incontro fiorentino di formazione e preghiera, abbiamo intervistato l’avv. Maria Brucale, dell’Unione camere penali di Roma, del direttivo dell’associazione Nessuno tocchi Caino, autrice di numerosi articoli e fortemente impegnata a livello nazionale sull’abolizione dell’ergastolo e sui temi «satelliti» che ruotano intorno a questa complessa questione.

Lo scorso dicembre, l’associazione Nessuno Tocchi Caino ha tenuto un Congresso dal titolo «Spes contra spem», in riferimento alla Lettera di Paolo ai Romani (4, 18). Quali sono stati gli argomenti trattati? Quali gli obiettivi?

«II titolo del congresso, Sperare oltre ogni speranza, guarda a una realtà, quella attuale, che sembra chiudere le porte alle aspirazioni di recupero delle persone condannate all’ergastolo per reati contemplati dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, una norma che esclude dai benefici penitenziari e dal graduale ritorno in società i detenuti che non collaborino con la giustizia. Il proposito palesato dal congresso è di restituire ad ogni uomo, ancorché detenuto, dignità di persona ed aspirazioni di vita e di libertà, di dare finalmente attuazione all’art. 27 della Costituzione. L’abolizione dell’ergastolo cosiddetto “ostativo” e del regime di carcerazione del 41 bis Ordinamento penitenziario, un regime ormai soltanto punitivo e vendicativo nelle sue modalità applicative, sono stati il cuore del congresso».

Ha parlato di ergastolo ostativo, può spiegare meglio di cosa si tratta e chiarire le ragioni per cui se ne chiede l’eliminazione?

«Con il d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito nella L. 12 luglio 1991 n. 203, è stato inserito nell’ordinamento penitenziario l’art. 4 bis che preclude a chi ha commesso determinati reati (c.d. reati ostativi) – tra cui, primi, i reati associativi – l’accesso ad ogni beneficio penitenziario e alla liberazione condizionale, salvo che collabori con la giustizia. L’ergastolo per reati contemplati dall’art. 4 bis si espia per intero. È morte viva; assenza di aspirazione di recupero, di reinserimento o di rieducazione, di rimorso. Il «fine pena mai» o 9999, come si trova scritto ormai negli ordini di esecuzione pena emessi dalle Procure, dà la suggestione del numero periodico che si ripete all’infinito; l’indicazione di un tempo che non può arrivare».

Una pena, dunque, che esclude la rieducazione? Una forma di tortura?

«Sì, per tale ragione è incostituzionale: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27 comma III, Cost.). La Corte europea lo ha ribadito con la sentenza “Vinter c. Regno Unito”. L’ergastolo è in sé inumano e degradante se non contempla una possibilità di accesso al trattamento rieducativo, una proiezione di tornare in libertà, diversa dalla collaborazione con la giustizia. E incostituzionale è in sé il condizionare alla collaborazione con la giustizia (troppo spesso opportunistica delazione), l’accesso alla gradualità del reinserimento in società. Anche tra chi espia tali gravi reati, c’è chi si proclama innocente. Ne ha diritto! Come si può ammettere che tale diritto venga spezzato da un ricatto di legge che gli impone di “collaborare”?».

Anche riguardo all’ergastolo cosiddetto «comune», ci sono riserve di legittimità costituzionale?

«A mio avviso, l’ergastolo è sempre incostituzionale perché prospetta alla persona una pena detentiva incerta nella durata. Costringe la mente del recluso ad una assenza di prospettiva che è in sé negazione di vita.

Per chi espia l’ergastolo inflittogli per un delitto “comune”, la speranza c’è ma è lontana, fluida, sfumata. La carcerazione è proiettata al raggiungimento di obiettivi trattamentali progressivi: l’accesso alle misure alternative al carcere; la liberazione condizionale, dopo 26 anni di pena sofferta. Per chi ha mantenuto una condotta carceraria “tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, (art. 176 c.p.) dunque, si possono aprire le porte del carcere, ma non alla libertà! Il condannato “può” essere ammesso: incertus an incertus quando. Una regressione anche minima del comportamento (una zuffa con i suoi custodi; un insulto, un momento di aggressività che andrebbero perdonati in 26 anni di carcere!) preclude l’accesso al beneficio che, in ogni caso, sospende l’esecuzione della pena, non la fa cessare definitivamente. Chi viene condannato deve conoscere la sua pena, dare una proiezione alla sua speranza, individuare un obiettivo certo cui tendere, avere un’altra opportunità. L’ergastolo è incostituzionale, sempre».

E il 41 bis? È un provvedimento emanato dal Ministro della giustizia per evitare che i partecipi a sodalizi criminosi mantengano il collegamento con i clan. Perché viene additato come tortura e se ne propone l’eliminazione?

«Per come è concepito, previsto, disciplinato e attuato il 41 bis è vendetta di Stato, è tortura. È interruzione dello stato di diritto. Una norma di natura emergenziale resa ormai stabile il cui obiettivo è, oggi più che mai, la mera punizione e afflizione.

Il 41 bis determina la sospensione del trattamento, ossia interrompe il percorso di progressivo reinserimento nella società che deve, per Costituzione, connotare qualunque carcerazione. Un’interruzione che ha una durata indefinita e lascia alla detenzione in carcere la sola funzione retributiva, non più rieducativa. Quale utilità, a fini della prevenzione del crimine e della sicurezza, ha ridimensionare l’aria, il vitto, l’abbigliamento, la possibilità di cucinare, di essere curati, di leggere e studiare, il tempo da trascorrere con i propri congiunti? Oggi poi che tutto è ascoltato, videoregistrato, spiato.

Il detenuto resta all’interno della propria cella per 22 ore al giorno con buona pace della funzione rieducativa della pena, del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e del rispetto della dignità della persona, con buona pace del suo senso originario, della sua essenza giustificatrice, con buona pace del diritto».

Rispetto alla sua esperienza di avvocato penalista impegnato spesso nella difesa di detenuti ergastolani e detenuti in 41 bis, quale speranza intravede nella riforma della giustizia che dovrebbe scaturire dagli “Stati Generali sull’esecuzione penale” appena conclusi?

«La speranza è che gli Stati Generali si traducano in proposte normative che riportino al centro l’uomo e i suoi diritti fondamentali e che riescano a trainare verso il diritto una politica, troppo spesso animata da spinte demagogiche e populiste, che si autoassolve stigmatizzando i “cattivi per sempre” e offrendoli come capri espiatori cui indirizzare ogni frustrazione».

* membro del Gruppo di lavoro sulle carceri della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) 

Foto “Veave in jail” by BarnellbeOwn work. Licensed under CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons.