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«Che cos’è verità?», l’antica domanda che ci inquieta ancora

È singolare, a volte. Ho cominciato a mettere giù un mio libro sul dubbio critico nell’età moderna che, pare a me, è una conquista della Riforma protestante. C’è una strana domanda di Pilato in quello che passa per essere il processo a Gesù raccontato dal quarto Evangelo di Giovanni. Strana perché appare fuori contesto, ha sconcertato tanti esegeti neotestamentari. Pilato, prefetto di Roma in Giudea, domanda a Gesù: «Cos’è verità?» (Giov. 18, 38). Non è domanda procedurale di un magistrato inquirente – avevo appena scritto sul mio computer che è una domanda filosofica. Ed ecco che, nello stesso giorno, in libreria c’è un libro freschissimo di stampa di Aldo Schiavone (fondatore dell’Istituto italiano di Scienze umane). Sfoglio il libro – Ponzio Pilato* – e vedo che è un focus critico documentato quanto brillante centrato sulla stessa strana domanda che ha intrigato me. È una «domanda platonica», scrive Schiavone.

Pilato è tutt’altro, secondo Schiavone e, diciamolo, secondo me, che l’ottuso burocrate di una certa vulgata tradizionale delle Chiese, quello che condanna Gesù alla morte di croce, anche se – l’evangelista riferisce – dice ai Giudei «Io non trovo alcuna colpa in lui», cerca ripetutamente di salvarlo e, dopo che l’ha condannato, «se ne lava le mani».

L’impero di Roma era più che tollerante con le religioni degli altri quando non minacciassero il dominio imperiale, anzi sincretisticamente talora le annetteva al proprio politeismo pragmatico, alla sua religione civile, le usava come instrumentum regni, come cemento del suo potere. Sapeva che delle province del suo impero la Giudea era la più difficile, riottosa, forte della sua fede monoteista e della concezione che avevano gli Ebrei di essere il «popolo eletto». In Giudea Roma mandava i suoi procuratori migliori, i più preparati e colti, quelli che sapevano giocare da duri quando il gioco – la sicurezza dell’ordine pubblico, del potere romano – si faceva duro. A mandare i ribelli, le teste calde degli Zeloti, il movimento di liberazione nazionale a morire in croce non ci pensavano due volte.

Perché – si è chiesto Schiavone – dopo avergli dimostrato attenzione e benevolenza, lo condanna alla croce? Ignavia, pavidità, populismo – ipotesi, questa terza, di un opinion maker italiano che ha applicato a quella epocale storia di 2000 anni fa il «politichese» della malata democrazia di oggi? Lo manda alla croce perché la piazza è incandescente, minaccia ribellione, la folla che aveva osannato con tripudio di palme e ulivi Gesù ieri oggi grida «Crocifiggilo!». È realismo politico quello del procuratore di Roma, non populismo.

È un brillante, documentato libro di storia quello che abbiamo in esame. Riprende le fonti storiche di Flavio Giuseppe, di Filone, i racconti degli evangelisti, Giovanni e i tre sinottici, la documentazione di un paio di ritrovamenti archeologici e ci lavora su anche di intuito, di introspezione nei fatti raccontati, di una giusta misura di fantasia. Riferisce su come, senza sconti, il governatore romano, succeduto a Valerio Grato nel 26 a.C. avesse lavorato in Giudea negli anni prima. Dà atto dell’elasticità mentale con la quale aveva agito in un episodio che ha come fonte lo storico Giuseppe, quando, avendo egli ordinato a una coorte che muoveva da Cesarea per acquartierarsi a Gerusalemme di fare ingresso in città, portando come stabiliva il protocollo romano le insegne con il ritratto dell’imperatore, e avendo i giudei protestato perché la Legge giudaica proibiva l’esibizione di qualsiasi immagine, il procuratore le fece rimuovere. Analizza il famoso interrogatorio con la «domanda platonica» (Giov. 18, 33-38 e i tre sinottici): più che un interrogatorio, è un dialogo tra intellettuali che si confrontano alla pari, che anzi è Gesù a dominare. Nota che l’uomo di Nazareth che, in catene, si confronta con lui, avendo deciso lui la sua sorte di morte, lo impressiona con il suo carisma.

«Gesù non desiderava affatto morire ma non cerca in alcun modo di sfuggire alla condanna» – scrive Schiavone – Ritengo che il governatore abbia collegato in unico quadro tutti gli elementi, si sia reso conto dell’atteggiamento del prigioniero e persuaso, fortemente suggestionato da lui a non contrastarne il disegno. Che, da un certo momento in poi, tra Pilato e Gesù si sia stretto come un tacito e indicibile patto, che spinse Pilato nella direzione che Gesù riteneva inevitabile».

* Aldo Schiavone, Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria. Torino, Einaudi, 2016, pp. 175, euro 22,00.