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Sopravvivere all’ombra dei faggi della morte

Quando Hannah Arendt parlò di «banalità del Male» a proposito della Shoah, l’opinione pubblica restò colpita da quel concetto così difficile da assimilare, che ancora oggi viene contestato da alcuni. Credo ora che a questo concetto possa affiancarsene un altro, forse oggi non indispensabile, per interpretare quei fatti, ma che ebbe grande importanza per chi allora, da tedesco, si trovò a scoprire un po’ per volta la verità. Parlerei di «ingenuità del Bene»: nel senso che chi si trovò a essere perseguitato per ragioni politiche, da oppositore al nazismo, riteneva di dover contestare una politica e un regime fortemente repressivo, brutale, stolto. Ma solo poco per volta dovette scoprire che dietro a questa già triste consuetudine autoritaria e sciagurata c’era l’abisso, l’indicibile.

È il caso della narrazione scritta da Ernst Wiechert nel 1939, dopo il suo internamento di circa un anno a Buchenwald (letteralmente: foresta, selva di faggi), donde il titolo allusivo del libro: Totenwald, ovvero La selva dei morti*. Scritto nel 1939, il libro riproposto oggi in Italia, ripercorre l’arresto, il passaggio in luoghi provvisori di reclusione e infine l’internamento: un internamento di durata relativamente breve, ma tale comunque da pregiudicare il fisico e l’anima dello scrittore, all’epoca già affermatosi con Il bosco (1922) e Il lupo dei morti (1924), con i racconti del Flauto di Pan (1930) e con vari drammi radiofonici. L’opposizione al nazismo di questo autore, tutto permeato di un grande senso della natura, è legata alla vicenda del pastore protestante Martin Niemöller (1892-1984), che insorse contro il paragrafo ariano e la legislazione antiebraica, e per questo venne anch’egli incarcerato, assolto ma poi per volere di Hitler deportato a Dachau.

La narrazione di Wiechert, lenta e riflessiva nel suo narrare di sé in terza persona, esprime lo stupore e il progressivo rendersi conto di una realtà che supera ogni possibile soglia dell’orrore. La sua sensibilità lo porta a cogliere e a rappresentare per immagini il contrasto fra i valori umani e la bestialità di un popolo che si divideva fra gli aguzzini e quelli che assistevano imperturbabili allo svolgersi di una tragedia senza limiti: che dire di chi andava nelle stazioni a dileggiare i prigionieri sui vagoni-carcere? Non stride orrendamente il contrasto fra il paesaggio della foresta con il cielo blu a contornarla dall’alto, e una serie di gironi danteschi di miserie umane?

Non mancano temi che abbiamo potuto conoscere in Italia grazie a Primo Levi: i prigionieri resi co-responsabili delle torture e dell’umiliazione dei «colleghi», la famosa «zona grigia», l’accostamento delle categorie dei «politici» ai delinquenti comuni, degli omosessuali a quelli definiti tout court «deficienti». Ma, appunto, è una visione che si fa strada a poco a poco. Parlando di sé in terza persona scrive Wiechert: «Non credette a tutto [neanche a ciò che vedeva, inizialmente, ndr], non credette ai prigionieri appesi ai rami degli alberi per le braccia legate sul dorso, non al lento assassinio di innumerevoli ebrei sul posto di lavoro, non ai moltissimi suicidi di quegli sciagurati, ai quali la morte appariva un paradiso. Lui non volle credere».

Questa sorta di inferno sovverte qualunque categoria, qualunque rappresentazione del nostro mondo e anche di Dio «Dio era morto. Erano infrante la rappresentazione di lui, la concezione millenaria, la fede nel suo governo»; «… non vi era più un Padre al di là delle stelle e delle nubi dorate. Non vi era il Padre, ma il volto di pietra di Caino fratricida…». Quando arriva una liberazione, per vie inaspettate, «“Che uomo strano”, disse qualcuno nella sua baracca. “Quando è arrivato aveva la faccia come di pietra e anche ora che se ne va è la stessa cosa” (…): non si viveva in un mondo in cui fosse bene permettere che il cuore salisse sino agli occhi».

* E. Wiechert, La selva dei morti, Milano, Skira, 2015, pp. 121, euro 14,00.

Foto “Buchenwald-J-Rouard-04“. Licensed under CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons.