istock_000079352559_xxxlarge

Le buone pratiche degli stati europei per l’accoglienza

Negli ultimi mesi diversi paesi europei hanno irrigidito i controlli alle frontiere, per ultima l’Austria: il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha parlato di due mesi per regolare il flusso di rifugiati nell’Unione, altrimenti la libera circolazione dei beni e delle persone nello spazio Schengen sarà messa a rischio definitivamente. La gestione dei flussi migratori con strategie emergenziali e non strutturali è il principale problema di questo periodo, secondo l’ultimo rapporto della Fondazione Leone Moressa sui sistemi di accoglienza europei. La “Buona accoglienza”, questo il nome del rapporto, paragona i diversi sistemi dei paesi europei per capire dove sia possibile migliorare i processi con le buone pratiche degli altri stati. «Il rapporto fotografa la situazione alla fine del 2015, ma il sistema è in continua evoluzione – dice Enrico Di Pasquale, ricercatore della Fondazione e redattore del rapporto – l’accoglienza dei vari paesi cambia quasi di giorno in giorno e la difficoltà maggiore è stata monitorare i cambiamenti di questo periodo storico».

Confrontare le diverse pratiche può fare emergere elementi positivi, come il sistema Sprar (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) per l’Italia, ma anche sottolineare le mancanze, come la lunghezza dei tempi di esame delle domande di asilo: spesso ciò che dovrebbe essere fatto in un mese è fatto in un anno e chi entra nei centri di accoglienza viene trattenuto per molto tempo creando un ingolfamento della procedura.

«Oggettivamente l’afflusso di persone degli ultimi mesi ha sovraccaricato il sistema che non era preparato a questi numeri – continua Di Pasquale – quest’anno abbiamo toccato la quota 100 mila persone accolte nei centri di accoglienza italiani, ma quelli Sprar hanno circa 20 mila posti: questo ha dato vita a un continuo afflusso nelle strutture temporanee di emergenza che non sono preposte e non hanno servizi di base da offrire alle persone e che portano con sé le problematiche legate ai territori. Nel prossimo futuro i posti saranno 30 mila, ma il problema è sempre la corsa all’emergenza che non stabilizza la situazione».

Per restare su modelli da seguire, la distribuzione dei migranti sul territorio nazionale funziona bene in Germania e Svezia: in Italia troppo spesso i comuni vedono l’accoglienza come un costo e un problema sociale e poco come un’opportunità. Oppure la Francia, che distribuisce a tutti i migranti un manuale in 22 lingue, redatto dal Ministero della salute, andando a colmare il grande problema delle informazioni mancanti, che contribuiscono a orientare e dare fiducia alle persone.

Un altro limite per il sistema italiano è quello relativo al tempo del percorso di accoglienza: «dalla nostra esperienza è difficile poter pensare di portare a compimento un percorso di integrazione del migrante in soli sei mesi – dice Giulia Gori dell’ufficio Mediterranean Hope – Rifugiati e Migranti della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia – i tempi di accoglienza si sono ridotti negli ultimi anni, risultando troppo brevi per un buon percorso di integrazione. Il migrante uscito troppo presto dal circuito Sprar si riversa sul territorio andando ad aggravarne la situazione locale, ancora una volta perché il sistema non gestisce il fenomeno». Ma non solo, continua Gori:«il nuovo decreto legislativo, il 142/15, che va a recepire le direttive europee, ha diminuito il tempo di accesso al lavoro. Ora per un richiedente asilo è possibile svolgere attività lavorativa dopo solo due mesi: questo sulla carta è positivo, ma di fatto sfido chiunque a riuscire a mantenersi nel mondo del lavoro oggi in così poco tempo. Inoltre spesso manca un’offerta linguistica degna di questo nome, che è lasciata all’associazionismo e al prezioso lavoro dei volontari».

Come detto la carenza più grande, sia a livello italiano che europeo è la messa a sistema del processo dell’accoglienza, che superi l’emergenza: ma allora qual è la buona pratica più urgente in Italia? «Difficile da dire – conclude Giulia Gori – perché i buoni esempi ci sono ma non sono diffusi a livello nazionale: qui a Roma per esempio, per quello che riguarda il riconoscimento dei titoli di studio conseguiti nei paesi d’origine, segnalo che il Ministero degli affari esteri da qualche tempo ha messo in piedi un servizio dedicato, che funziona molto bene. Ma questo grazie alla sensibilità del dirigente, non per direttive del Ministero. In autonomia è stato ampliato il servizio anche ai titolari di protezione umanitaria e non solo ai rifugiati». Insomma troppe buone idee sono ancora lasciate alla sensibilità e alla competenza degli operatori invece di diventare strutturali.

Foto: vichinterlang