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La risposta delle chiese europee al fenomeno migratorio

La Commissione delle chiese per i migranti (Ccme) e il Consiglio ecumenico delle chiese (Cec) hanno pubblicato un’edizione riveduta e aggiornata dello studio congiunto «Mappa delle migrazioni. Mappa delle risposte delle chiese in Europa». Il testo, preparato dal pastore Darrell Jackson e dalla sociologa Alessia Passarelli, esplora le sfide e i cambiamenti nel panorama delle chiese europee alla luce delle migrazioni internazionali. Sul lavoro di ricerca abbiamo intervistato Alessia Passerelli, che attualmente collabora con la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), compiendo ricerche sull’integrazione dei migranti protestanti di prima e seconda generazione presenti nelle comunità religiose e nella società.

Da quale idea nasce questo studio?

«È ormai risaputo che l’immigrazione ha modificato il panorama religioso europeo. Questo significa che non solo ci troviamo di fronte ad una pluralità di fedi e di religioni, e ad una loro maggiore visibilità nelle nostre società, ma anche che l’immigrazione sta cambiando le chiese cristiane storiche e in alcuni paesi gli equilibri tra chiese di maggioranza e chiese di minoranza. Questo studio dunque nasce come strumento offerto alle chiese per comprendere l’entità e le dinamiche del fenomeno migratorio, e per condividere le buone pratiche e le sfide dell’integrazione nelle diverse chiese cristiane in Europa. Già nel 2008 era uscita una prima edizione che, con alcuni limiti, ci forniva una prima fotografia di un’Europa plurale e di un fenomeno migratorio ormai strutturale. Lo studio attuale riprende in parte quello precedente, ma offre maggiori spunti di riflessione ed un’analisi dell’integrazione e del lavoro delle chiese più approfondito, grazie ad un questionario somministrato alle diverse chiese».

Alla luce dei suoi studi condotti in questi anni, quali sono le principali tendenze in atto?

«In generale dallo studio emergono alcuni aspetti fondamentali. Nonostante l’immigrazione in Europa e nel mondo sia sempre esistita, i modelli migratori stanno cambiando rapidamente: ad esempio, oggi la maggior parte dei paesi si ritrovano ad essere al tempo stesso paesi di emigrazione, immigrazione e transito. Il caso italiano non fa eccezione: secondo le ultime statistiche del dossier Idos/Confronti il numero di persone che sono arrivate e che hanno lasciato il paese in pratica si equivale, senza parlare poi di quanti – migranti economici e soprattutto richiedenti asilo – considerano l’Italia un paese di transito. Inoltre, la distinzione tradizionale tra push e pull factors, ovvero tra le motivazioni che spingono le persone a lasciare il proprio paese e quelle che le attraggono verso un altro, non è più così netta e accurata perché non tiene in considerazione quanti scelgono di vivere una vita transnazionale. La possibilità di viaggiare in maniera più economica, unita alla possibilità di essere in contatto con i propri cari costantemente, ha cambiato in maniera radicale il vivere all’estero, aumentando la transnazionalità delle famiglie».

Quali dati emergono avendo uno sguardo che parte dal passato per arrivare alloggi?

«Negli ultimi anni emerge una crescita senza precedenti del numero di persone in viaggio/in movimento a causa di guerre e conflitti. Nonostante la maggior parte dei richiedenti asilo e dei rifugiati si trovi ancora nei paesi limitrofi alle zone dei conflitti, l’Europa ha accolto un numero sempre crescente di richiedenti asilo. Inoltre, altro dato evidente che emerge è il lavoro consolidato che buona parte delle chiese a livello nazionale, regionale e locale porta avanti per assistere i migranti ed i rifugiati e per influenzare le politiche migratorie e di asilo dei singoli stati. Così, già prima del boom di arrivi di richiedenti asilo iniziato nel 2013, che ha raggiunto il suo apice nel 2015, lo studio dimostra chiaramente il ruolo chiave che le chiese svolgono nell’accoglienza dello straniero – sia esso un migrante economico o un rifugiato».

Quali risposte le chiese possono offrire sul tema?

«Le chiese possono fare molto ed, in parte, lo stanno già facendo. Innanzitutto possono fare un lavoro di advocacy, ossia di sostegno e di difesa dei diritti dei migranti e dei rifugiati a livello nazionale e a livello europeo. Inoltre, possono portare avanti un lavoro di accoglienza degli immigrati all’interno delle proprie comunità, cercando di promuovere delle buone pratiche di integrazione (bi-direzionale), trasformando le chiese in laboratori di intercultura le cui prassi possono essere utilizzate in altri settori della società. Vi è poi anche un altro tipo di accoglienza, altrettanto importante, che è quella che si fa nei confronti di tutti gli immigrati che arrivano in Europa; anche in questo caso le chiese possono strutturare dei progetti che aiutino i nuovi arrivati ad inserirsi nella società ospitante, cercando di andare oltre l’accoglienza emergenziale. Vi è, infine, la promozione di campagne di sensibilizzazione volte ad informare ed educare i cittadini riguardo ai movimenti migratori, alle loro cause e all’effettiva capacità dell’Europa di accogliere ed integrare coloro che arrivano per cercare lavoro o un rifugio sicuro».

Quando usiamo il termine “migrante” non facciamo distinzioni tra i paesi da cui le persone arrivano. Purtroppo la politica invece distingue, seleziona, strumentalizza. Pensiamo, ad esempio, al caso dei siriani accolti in Germania quale futura forza lavoro e manodopera qualificata a discapito di altre popolazioni.

«Migranti è un termine neutro che descrive il movimento di una persona da un luogo A ad un luogo B. Le differenze spesso nascono dalle motivazioni che spingono le persone a lasciare il proprio paese: occorre capire se si parla di migrazioni volontarie o forzate. Come per i pull and push factors, anche qui la distinzione non è così netta. È importante sottolineare come spesso vengano definiti “migranti” solo coloro che provengono da determinati paesi: difficilmente un francese che vive in Italia verrà etichettato come un immigrato. Si delinea così una scala di accettazione, migranti di serie A, B, C, a seconda della loro provenienza. In questo modo, il termine migrante acquista una connotazione negativa, che rinforza gli stereotipi sui nuovi arrivati. A questo poi si aggiunge la qualifica, la professionalità dei migranti, che rappresenta un altro fattore di accettazione e di discriminazione. Nel momento in cui si strumentalizza la professionalità dei richiedenti asilo (la cui protezione non dovrebbe avere nulla a che fare con le loro qualifiche) per porre un freno ad altre categorie di migranti, si rinforzano le divisioni e le classificazioni tra persone alimentando così razzismo, xenofobia e discriminazione».

Parliamo anche di emigrazione intraeuropea, all’interno degli spazi Schengen: è ancora in atto? Pensiamo ad esempio ai grandi flussi degli scorsi anni di popolazione romena o albanese: esiste preoccupazione per una ripresa di questi flussi?

«Ci troviamo in un momento critico: il libero movimento all’interno dell’aerea Schengen è a rischio: paese dopo paese stanno tutti chiudendo le frontiere. Un ripensamento o una sospensione degli spazi Schengen, invece di proteggere gli Stati europei, minerebbe la libertà dei suoi cittadini. Basti pensare a quante persone, soprattutto giovani, hanno lasciato l’Italia per motivi di studio o di lavoro negli ultimi anni».

In definitiva, i migranti sono un peso o una risorsa per un’Europa stanca, vecchia e impaurita?

«Una risorsa. Se da un lato è vero che il numero dei richiedenti asilo e delle persone in cerca di protezione è aumentato esponenzialmente negli ultimi tre anni, dall’altro è vero anche che gli stati europei hanno la capacità e le risorse per affrontare questa situazione in maniera strutturata e non emergenziale. Fino ad ora sembra però sia mancata la volontà politica di farlo. Ed è qui che le chiese possono dimostrare con le loro buone pratiche che un altro modo, più umano, più dignitoso di accogliere chi arriva in Europa è possibile».