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Trova le differenze: storie dalle frontiere

Arizona, Stati Uniti. E’ seduto sul bordo della strada, non si preoccupa della macchina che si avvicina, alza solo lo sguardo e chiede «Avete visto mio figlio? Lo sto cercando ma non riesco a trovarlo». E’ seduto perché ha entrambe le anche rotte, ha due bottiglie di acqua nelle mani ma sono quasi finite. I volontari con il cappellino rosso, ben calato sopra la fronte per proteggersi dal sole implacabile, chiedono scusa, «no, non abbiamo visto tuo figlio», gli danno dell’acqua pulita e chiamano un’ambulanza. Quando la volontaria torna il giorno dopo per vedere come sta l’uomo, lui non c’è più e lei non lo ha mai più rivisto. Chissà se ha mai trovato suo figlio, lei spera di sì con tutta se stessa.

Queste righe non sono l’inizio di un romanzo, sono la fedele trascrizione di quanto mi è stato raccontato qui, nella vita reale. E il qui non è un molo assolato siciliano, ma il deserto tra gli Stati Uniti e il Messico. Le bottiglie di acqua nella mani di Juan, circa 40 anni originario dell’Honduras, sono quelle messe nel deserto ogni settimana dal gruppo umanitario dei Samaritans e la volontaria è Shura Wallin, donna instancabile che ha fondato questo gruppo 12 anni fa insieme al pastore Randy Mayers della comunità The Good Shepherd, della United Church of Christ (chiesa riformata negli Stati Uniti) a Sahuarita, in Arizona.

Dopo più di un mese che mi trovo in questo altro confine, dopo aver passato quasi due anni a Lampedusa, molti mi chiedono se ci sono somiglianze tra qui e l’Italia. Io mi chiedo più che altro se ci siano delle differenze, perché le somiglianze sono tantissime, e non è sicuramente una considerazione positiva.

Sento tante storie, le racconta Shura una sera, davanti a lei c’è un grande tavolo pieno di oggetti, ci sono scarpe dalla suola rotta o ricoperte da pezzi di stoffa per non lasciare impronte nel deserto, ci sono bottiglie d’acqua rivestite, qualche fotografia, ci sono diverse bandane e teli ricamati, c’è una borsetta da donna con alcuni trucchi e c’è un biberon. Ogni oggetto è una storia, di persone, con nomi, famiglie, dignità e desideri, persone spesso sparite tra la sabbia del deserto, invece che tra le onde del mare. In queste storie ci sono case lasciate perché non c’è la possibilità di provvedere alla propria famiglia, perché i paesi da cui si scappa presentano altissimi tassi di violenza come il Guatemala, l’Honduras o El Salvador. Ma in queste storie ci sono anche bambini cresciuti negli Stati Uniti che si trovano deportati insieme alle proprie mamme come criminali, arrestati nelle proprie case all’alba, nel viale numerose macchine della polizia con sirene spiegate, un altoparlante che ripete il nome della vicina con cui si è vissuto in tranquillità negli ultimi anni, e poi centri di detenzione e un autobus per tornare nella terra dai cui si è fuggiti, con un figlio che non ne conosce la lingua, perché questa è la lotta contro l’immigrazione “illegale” che l’amministrazione attuale sta portando avanti negli ultimi mesi.

Gli attori presenti in queste storie sono diversi. C’è la Border Patrol, la polizia di frontiera, che è una delle forze federali più estese negli Stati Uniti e anche una delle meno controllate al suo interno. Sicuramente trovandosi nelle zone di confine ha spesso salvato la vita a diverse persone nel deserto, ma ci sono anche numerose testimonianze circa gravi abusi verso i migranti e le comunità locali delle zone di confine, senza che esse siano mai state prese in considerazione. I dati raccolti della Border Patrol non sono resi pubblici o consultabili, così come verbali, video o altre informazioni. Se un agente spara a un altro agente, neanche in quel caso la famiglia può avere delle notizie certe, immaginate cosa possa accadere a un migrante a cui non viene riconosciuto alcun diritto. Poi ci sono i “Minutemen”, gruppi autorganizzati di uomini, spesso ex militari o ex agenti delle forze dell’ordine, che da privati cittadini fanno le ronde per intercettare e consegnare i migranti alla Border Patrol. Sono gruppi muniti delle loro armi personali, gli stessi che probabilmente un giorno, nel deserto, come racconta Shura, hanno lasciato appeso a un albero sopra un punto di passaggio dei migranti un cappio da impiccagione, un gentile avvertimento per quanti cercano di raggiungere l’agognato suolo degli Stati Uniti d’America.

Ma ci sono anche i gruppi umanitari, come i Samaritans che nel deserto ci vanno ogni settimana, per lasciare acqua e cibo, per fornire aiuto e per ripercorrere quei luoghi dove ogni tanto si trova una croce con scritto “Desconocido” cioè “Sconosciuto”. Non sono solo gruppi umanitari ma sono anche impegnati a sensibilizzare l’opinione pubblica su quanto accade al confine, portano avanti azioni di difesa dei diritti dei migranti e di riflessione sulle scelte che sta facendo questo paese. Scelte come quella di rendere lo stesso deserto un’arma, un deterrente mortale per chi è in fuga, o trattare soggetti vulnerabili, spesso potenziali richiedenti asilo, come i peggiori criminali. Vedo le foto dei centri di detenzione, prigioni con sbarre alle finestre, letti a castello e stanze anguste, e penso alle famiglie che vengono separate, ai genitori che devono lasciare i propri figli, magari cittadini a tutti gli effetti perché nati sul suolo statunitense. In un rifugio per migranti deportati, a Nogales in Messico, alcuni volontari fanno chiamare a casa chi è appena uscito da quelle prigioni, anche mesi senza poter contattare la propria famiglia. Miguel, del Guatemala, vuole provare a passare di nuovo il confine per tornare dai suoi figli, ma qualcuno gli dice «Aspetta Miguel, ora è troppo pericoloso, di notte nel deserto fa troppo freddo, e ti prego, non ci andare da solo e non ti fidare di chi ti promette di portarti dall’altra parte facilmente». Perché in queste storie ci sono anche i trafficanti, i “Coyote” e i cartelli della droga che fanno il miglior business grazie ai tanti in cerca di un futuro.

Se penso a quali differenze ci sono tra qui e l’Europa non ne vedo molte. Vedo più che altro il rischio di imparare qualcosa da qui, a spendere sempre più soldi per militarizzare i confini, per una sicurezza basata sulla paura e su abusi tollerati, per deportazioni e discriminazioni invece che per la difesa dei diritti di ogni essere umano.

Foto: “Tijuana-san diego border deaths” di Tomas Castelazo – Opera propria. Con licenza CC BY-SA 2.5 tramite Wikimedia Commons.