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La settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, un ghetto temporale?

Bisogna ammetterlo, purtroppo. Che in un pianeta ormai largamente multireligioso il vasto popolo cristiano – oltre due miliardi di persone sparse per ogni continente – sia quanto mai frammentato e incapace di operare insieme, salvo benvenute eccezioni, sembra ormai un dato di fatto che non fa problema. E in ogni caso non sgomenta, come forse dovrebbe, che tali divisioni rappresentino in genere una controtestimonianza di proporzioni colossali, fino a rischiare di scoraggiare, comprensibilmente, chi intenda avvicinarsi al messaggio evangelico, salvo doversi chiedere: quale vangelo? Quale tradizione cristiana? E quale chiesa? Interrogativi di enorme portata, certo complessi, eppure ineludibili. Che richiederebbero un po’ più di una risposta standard quale quella che in genere proviene, talora un po’ stancamente, dalla celebrazione di eventi annuali quali la (benemerita, sia chiaro) Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani che tradizionalmente si tiene dal 18 al 25 gennaio.

Sia chiaro, a scanso di equivoci: che la Spuc ci sia, che si tenga con la presenza spesso determinante delle diocesi e delle chiese locali, resta un fatto positivo che nessuno potrebbe sognarsi di sottovalutare. Permane peraltro la sensazione, soprattutto in chi da molti anni vi partecipa convintamente, di un’occasione non sfruttata appieno, e non di rado puramente rituale: soprattutto quando, e capita spesso, a essa non segua un cammino congruente durante il resto dell’anno, con un’attenzione non solo episodica alle dinamiche ecumeniche. Esattamente un anno fa, proprio su Riforma, il direttore Luca Negro, ora presidente della Fcei, sollevò, al riguardo, una questione che non andrebbe lasciata cadere.

A proposito della Settimana, egli sosteneva che – al di là degli eventi che, anche quest’anno come ogni anno, hanno coinvolto rappresentanti delle varie chiese, con una buona partecipazione e un clima fraterno – si dà un limite evidente: «Ne abbiamo fatto una riserva, un ghetto, non in senso spaziale ma temporale. Per una volta all’anno, diventiamo tutti fratelli e sorelle, riscopriamo la nostra vocazione all’unità. Nel resto dell’anno, fondamentalmente, ogni chiesa continua a farsi i fatti suoi». Ora, nel rileggere oggi tali (sacrosante, a mio parere) considerazioni, ho trovato spontaneo accostarle, pur nella diversità degli sguardi, a quelle proposte, in un libro appuntito (Contro il giorno della memoria, ADD editore 2014), da Elena Loewenthal sul 27 gennaio, in cui si denuncia con forza il rischio di deriva retorica di quella pur meritevole esperienza. E mi è tornato in mente quando, qualche mese fa, presentando il mio libro Non possiamo non dirci ecumenici (Gabrielli editore 2014), la pastora Lidia Maggi, molto impegnata sul tema, rifletteva sul fatto che ormai, dopo i tanti progressi del movimento ecumenico, dovremmo ammettere di non riuscire a comunicare alle generazioni più giovani la passione per l’unità dei cristiani; anzi, che la stessa terminologia adottata, a partire dalla parola ecumenismo, non è da loro capita, per cui occorrerebbe darsi da fare per inventarci un altro linguaggio, pena la prospettiva che non ci sia futuro in proposito.

Sono, pur presi alla rinfusa, appelli coraggiosi e non casuali, che, da sensibilità differenti, evidenziano che la trasmissione generazionale è cosa strategica per il cammino del dialogo ecumenico. La fase problematica in cui versano gli organismi storici, dal Consiglio europeo delle chiese (Kek) a quello mondiale (Cec), sorti non a caso dall’ordine mondiale nato dopo il 1945, è lì a confermarlo. Bisognerebbe discuterne, come di un caso serio. Bisognerà farlo, il più possibile assieme.

Foto “Kind en Kaars” by No machine-readable author provided. AutoCCD assumed (based on copyright claims). – No machine-readable source provided. Own work assumed (based on copyright claims).. Licensed under CC BY-SA 2.5 via Wikimedia Commons.