schermata_2016-01-18_alle_13

Il pastore Saeed Abedini torna a casa

Sebbene il segretario di Stato americano John Kerry abbia sminuito ogni connessione tra i due eventi, è difficile credere che non vi sia una relazione tra la fine delle sanzioni imposte all’Iran a deterrenza del suo programma nucleare (decisa sabato scorso da Onu, Usa e Ue) e la liberazione avvenuta sabato 16 gennaio di cinque cittadini americani reclusi da anni nelle carceri della Repubblica Islamica dell’Iran. Tra i nomi dei rilasciati – il giornalista Jason Rezaian, capo dell’ufficio iraniano del Washington Post, arrestato nel luglio 2014 con l’accusa di spionaggio; i marines statunitensi Amir Hekmati e Nosratollah Khosrawi e lo studente Matthew Trevithick – spicca quello del pastore protestante battista Saeed Abedini, arrestato nel 2012 con l’accusa di proselitismo religioso.

Classe 1980, nato in Iran e naturalizzato americano a seguito del matrimonio con Naghmeh, cittadina americana da cui ha avuto due figli, Abedini si era convertito al cristianesimo attorno al 2000. Almeno formalmente, la costituzione iraniana riconosce le minoranze cristiane, ma non tutela invece i convertiti, a cui è di fatto interdetta la partecipazione pubblica alla vita di chiesa e di comunità. All’alba del nuovo millennio, Abedini diventa così una personalità di spicco del cosiddetto “house-church movement”: alla data del suo arresto, avvenuto nel settembre 2012, la sua rete spirituale, inizialmente tollerata dalle autorità iraniane, conta 100 “case-chiesa” e più di 2000 fedeli in 30 città del paese. Trasferitosi in Idaho (Usa) con la famiglia nel 2005 (a seguito dell’affermazione politica di Mahmoud Ahmedinejad) Abedini non rinuncia a rendere visita al suo paese d’origine; nel 2009, all’atto di imbarcarsi sull’aereo, i primi problemi. Prima di lasciarlo rimpatriare, le autorità iraniane lo obbligano a firmare un accordo: per poter tornare in Iran, Abedini dovrà rinunciare a qualsiasi attività di tipo religioso. Per rendere visita ai famigliari, nel settembre 2012 il pastore atterra nuovamente a Teheran. È questo secondo viaggio (il primo da cittadino americano) a essergli fatale: i Guardiani della Rivoluzione gli sequestrano il passaporto e lo traducono nella celebre prigione di Evin – la “Evin University”, così l’hanno ribattezzata i detenuti, in maggioranza intellettuali e oppositori politici. Da allora si susseguono minacce di morte e promesse di rilascio su cauzione, ma gli appelli americani, della comunità internazionale e della moglie del pastore, attivissima presso le istituzioni statunitensi, cadono uno dopo l’altro nel vuoto.

Proprio l’estate scorsa, in occasione della firma degli storici accordi che hanno riaperto l’Iran all’Occidente, la donna aveva lamentato la scarsa attenzione riservata al caso di suo marito in sede di negoziato. Evidentemente, all’ombra della pubblicità data ai nuclear talks, la diplomazia ha fatto il suo lavoro. I media iraniani hanno evidenziato come nell’accordo rientri il rilascio di sette cittadini iraniani reclusi nelle carceri americane, una notizia ancora non confermata da fonti Usa.

Quand’anche non si tratti di un’esplicita apertura del regime iraniano in tema di pluralismo religioso, la vicenda del pastore Abedini rende evidente come, nella sua intricata complessità, il momento geopolitico possa essere favorire inedite intese.

Foto “Saint Sarkis Cathedral & Imam Khomeini, Tehran” by OrijentologOwn work. Licensed under CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons.