church-1059348_1280

La Chiesa anglicana evita lo scisma

La Chiesa Anglicana evita lo scisma, per il momento. Ma lo fa al prezzo di un rigido ritorno alla dottrina, serrando le fila attorno al tema dell’identità sessuale.

In questo modo si può sintetizzare l’esito di cinque intense giornate di lavoro a porte chiuse che hanno visto i 38 primati delle province anglicane nel mondo, in rappresentanza di circa 80 milioni di fedeli, confrontarsi e dibattere attorno al tema dell’ordinazione di ministri di culto omosessuali o lesbiche e ai matrimoni fra persone dello stesso sesso. Il prezzo più caro lo paga la Chiesa episcopale statunitense (Tec), ramo a stelle strisce della Comunione anglicana: per i suoi rappresentanti scatta la sospensione per tre anni, cioè non potranno partecipare alla vita e alla gestione della Comunione, e i suoi membri non potranno ricoprire cariche elettive né partecipare alle votazioni.

Bisogna fare un poco di ordine: nel 2003 la Chiesa episcopale ha ordinato il suo primo vescovo dichiaratamente gay, Gene Robinson.

Da allora sono iniziate le grandi difficoltà di dialogo e relazione fra le varie componenti della seconda confessione cristiana al mondo per numero di fedeli. Sono soprattutto le province africane ed asiatiche ad aver condannato con maggior forza le decisioni della chiesa nord americana, al punto da rompere sostanzialmente i rapporti con essa, di fatto attuando uno scisma.

Da allora l’ex arcivescovo di Canterbury Rowan Williams e l’attuale Justin Welby hanno speso buona parte del loro mandato in un costante tentativo di mediazione, di ricucitura degli strappi, di inviti al dialogo fra le varie fazioni. Fazioni che non hanno sostanzialmente mutato le proprie decisioni, continuando a ordinare pastore e pastori lesbiche e gay oltreché celebrare matrimoni fra persone dello stesso sesso gli uni, e continuando a condannare tali scelte gli altri, al punto da boicottare nel 2008 la più importante assise dei primati anglicani, l’appuntamento decennale della Conferenza di Lambeth.

Nella serata di ieri giovedì 14 gennaio è stato consegnato agli organi di stampa un comunicato che riassume gli esiti dei lavori, in cui viene ribadito che «le recenti decisioni della Tec rappresentano un fondamentale allontanamento dalla fede e dall’insegnamento seguito dalla maggioranza delle Province sulla dottrina del matrimonio, che secondo il Canone è l’unione fedele per tutta la vita fra un uomo e una donna».

Non attenersi a questo precetto è da considerarsi come un allontanamento «dalla responsabilità reciproca e dall’interdipendenza implicita nella Comunione anglicana».

Le indiscrezioni raccontano di un’assemblea spaccata in due, divisa fra la visione conservatrice e quella progressista. La prima ha avuto evidentemente un peso maggiore alla luce anche di una rappresentatività forte fra paesi africani e asiatici. Ma i mal di pancia sono stati molti, se è vero che la stessa Chiesa d’Inghilterra è divisa al proprio interno da visioni assai differenti sul tema.

Con la sospensione e non l’espulsione si sono evitate fratture, e si tratta di un successo per Welby che è stato instancabile tessitore. Il documento parla non a caso «non di una fine, ma di un nuovo inizio di un percorso da fare insieme».

La chiesa statunitense non riesce a nascondere l’amarezza e la preoccupazione per una simile decisione. Michael Curry, a capo della Tec, fa correre il pensiero immediatamente «a tutti quei fedeli omosessuali e lesbiche che si sono avvicinati alla nostra confessione per la nostra apertura, dopo esser stati condannati dalle loro chiese originarie, dalle loro famiglie, dalle comunità in cui vivono. Per loro ora si aggiungerà dolore al dolore».

Restano ora da valutare gli sviluppi di tali scelte e le effettive applicazioni. La Chiesa anglicana in Canada ad esempio non pare per nulla intenzionata a cessare le benedizioni delle coppie non eterosessuali, e un interrogativo si apre anche sugli Stati Uniti.

Il tema rimarrà al centro delle agende delle varie province ancora a lungo, ma con la sospensione per tre anni si evita la presenza americana alla prossima Conferenza di Lambeth, prevista per il 2018. Una scelta non casuale, che dovrebbe consentire di superare senza traumi l’assise, per poi tentare in seguito di ricomporre le fratture.

Foto via Pixabay