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Indonesia, un simbolo sotto attacco

Nella mattinata di giovedì 14 gennaio la capitale dell’Indonesia, Jakarta, è stata colpita da una serie di attentati. Le sei esplosioni sono avvenute in successione verso le 10.30 ora locale in un quartiere commerciale e finanziario vicino alle ambasciate straniere e alla sede delle Nazioni Unite. Tre esplosioni sono state registrate vicino a un locale di Starbucks.

Il bilancio finale di diciannove feriti e sette morti, tra cui cinque attentatori, potrebbe far pensare a un fatto minore, ma il valore simbolico dell’attentato non sembra essere in discussione: avvenuto nella capitale del più popoloso paese musulmano nel mondo, in un luogo conosciuto nel mondo per il suo equilibrio tra le confessioni e per la lotta al terrorismo, l’attacco di ieri ha subito fatto pensare ai fatti di Parigi di novembre, riportando al centro dell’attenzione il tema della globalizzazione del terrore molto caro al gruppo Stato islamico.

Si è parlato di un avvenimento inatteso, ma secondo Andrea Pira, giornalista dell’agenzia indipendente China Files, «la possibilità che ci fosse un attentato era stata presa in considerazione già da un mese, infatti c’erano diversi luoghi sorvegliati ed erano stati schierati circa 150.000 agenti soprattutto a protezione di chiese, luoghi pubblici e uffici, perché si ritiene che l’Indonesia rischia di diventare un po’ una propaggine di Daesh nel sudest asiatico».

Crescono i consensi per il gruppo Stato islamico in Indonesia

Recentemente, i gruppi jihadisti attivi nel paese hanno cominciato a convergere verso il sedicente Califfato, che ha di fatto preso il posto di Jemaah Islamiyah, un movimento che si proponeva come referente di Al-Qaeda in Indonesia e che ora è in disarmo rispetto ad altre forze. È opinione diffusa, infatti, che negli ultimi anni anche alcuni vecchi leader di area qaedista, come Abu Bakar Bashir, che nel 2008 aveva fondato un proprio gruppo, abbiano dato il loro sostegno al gruppo Stato islamico e ad Al Baghdadi. Allo stesso modo, anche Santoso, il fondatore dei Mujahidin dell’Indonesia Timur, probabilmente il movimento fondamentalista indonesiano più noto all’estero, si sarebbe detto partecipe nel progetto del Califfato. «Si calcola – racconta Pira – che gli indonesiani partiti per combattere in Siria siano qualche centinaio. I numeri precisi variano da un minimo di 200 fino a un picco di 700 comunicato dal governo».

Una lotta sempre più dura

«Nell’ultimo decennio Jakarta ha fatto di tutto per essere una storia di successo dell’antiterrorismo», spiega Andrea Pira. In effetti, a partire dall’attentato di Bali del 2002, nel quale morirono 202 persone, in gran parte turisti occidentali, e poi ancora di più dopo gli attentati di Giacarta nel 2009 contro gli hotel Marriott e Ritz, le autorità indonesiane hanno spinto molto questa lotta, creando anche un’unità speciale, la Densus 88, alla quale è stata affidato un potere molto ampio, che ha avuto come contraltare una crescita delle repressioni e delle violazioni soprattutto lontano dalla capitale. «Per avere un’idea della portata di questa battaglia – prosegue Pira – , è sufficiente pensare che sulle tracce di Santoso attualmente ci sono circa 13.000 agenti».

Un modello di equilibrio?

Per collocare gli eventi del 14 gennaio va ricordato che l’Indonesia è il paese con la popolazione musulmana più grande al mondo: su 250 milioni di indonesiani, infatti, circa 206 milioni sono di fede musulmana. Secondo Andrea Pira «è un islam tollerante, al punto che gli indonesiani si definiscono semplicemente come musulmani e non fanno distinzioni tra sunniti e sciiti».

Nella storia recente del paese, che ha visto in alcune aree l’introduzione di restrizioni sul consumo di alcol, sono pochi gli eventi legati all’estremismo religioso, legati per lo più ad attacchi rivolti contro alcuni luoghi di culto e ad episodi specifici, più vicini a questioni di contrapposizione politica che non a rivendicazioni identitarie.

«In più – ricorda Pira – in Indonesia quest’anno la democrazia diventa maggiorenne. È ancora una storia giovane, però la possiamo citare come esempio ben riuscito di democrazia in un paese musulmano. Nonostante una storia di dittatura finita solo nel 1998 parliamo di una democrazia viva e solida. C’è una persistente forza dei militari e di settori legati al vecchio regime, ma ci sono segni di cambiamento. Per esempio la vittoria di Joko Widodo nelle ultime elezioni presidenziali ci indica che anche gli outsider hanno spazio».

L’Oriente del Profeta

Proprio questa storia di successo potrebbe essere vista come il motivo principale per pianificare un attentato in questo paese. Posto che parlare del gruppo Stato islamico in Indonesia è diverso dal parlare di Isis in Siria, perché spesso si tratta di un’adesione in termini di “marchio” più che di un’unica organizzazione, la rivendicazione arrivata a distanza di qualche ora dall’attentato parla di “una nuova battaglia contro i crociati”. In questa frase, che sul campo non si è tradotta in realtà in un attacco verso le comunità cristiane ma contro un generico bersaglio, si riassumono due concetti cari al gruppo Stato islamico.

Da una parte, infatti, colpire uno degli esempi mondiali della battaglia contro il terrorismo e contro le divisioni religiose significa cercare di destabilizzarlo, e al tempo stesso di porlo sullo stesso piano dei “crociati” che si desidera sconfiggere.

Recentemente il governo indonesiano ha reso ancor più dura la sua battaglia nei confronti di coloro che lasciano il paese per andare a combattere in Siria accanto alle forze di Al Baghdadi: per tutte queste persone, in realtà non più di 700 secondo le stime più pessimiste comunicate dal governo, verrà negata la possibilità di rientrare in Indonesia una volta terminato il proprio operato.

Inoltre, l’Indonesia rappresenta uno dei vertici di quello che viene chiamato Oriente del Profeta. «Normalmente – spiega Andrea Pira – si fa riferimento al progetto del Califfato comprendendo il territorio che va dalla penisola arabica fino alla Spagna. In realtà c’è anche tutto il lato dell’Islam orientale, che va dall’Indonesia alla Malaysia fino al Bangladesh e al Pakistan. In questo attentato c’è l’immagine di un’espansione verso est dei confini del Califfato».

Minoranze solide

L’Indonesia non è solo Islam: circa il 20% della popolazione, infatti, professa confessioni differenti, e, spiega Pira, «dall’inizio degli anni Duemila il governo ha coinvolto in modo sempre più profondo le altre realtà religiose, riconoscendo nei fatti tutte le fedi come una sola di fronte alla legge». Per i cristiani in Indonesia, insomma, non dovrebbero esserci grandi cambiamenti, ma ci si aspetta che tutti i rappresentanti delle varie confessioni si uniscano in un unico appello contro le violenze.

«Siamo di fronte a un caso fortemente simbolico, ma non è detto che abbia altre conseguenze», conclude Andrea Pira.

Foto “2016 Sarinah-Starbucks Jakarta Attack 7” by Gunawan KartapranataVlastito djelo postavljača. Licensed under CC BY-SA 4.0 via Wikimedia Commons.