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La croce dei migranti

La notizia dell’annunciato ritiro del direttore del British Museum di Londra poteva passare totalmente inosservata per chi non si occupa di arte. Stranamente, però, ci riporta a Lampedusa. Le storie di speranza e di dolore che passano per l’isola siciliana sono entrate nelle sale dell’importante museo londinese grazie a una croce realizzata dal falegname lampedusano Francesco Tuccio, già soprannominato il falegname dei poveri, grazie a una croce in possesso del direttore uscente Neil McGregor il quale, nel lasciare l’incarico, ha deciso di donare l’oggetto al British Museum.

È nata quindi l’occasione per tornare a Lampedusa e ascoltare il punto di vista del falegname e artista che racconta come il suo lavoro si intrecci con le tante storie di migrazione, sofferenza e speranza che passano per il Mediterraneo.

Com’è nata quest’idea?

«Da più di 25 anni faccio il falegname, ma oltre al mio lavoro mi sono sempre dedicato alla scultura e al riciclo dei materiali. Un naufragio in cui morirono più di 300 persone al largo di Lampedusa ha scatenato in me una forte rabbia e la voglia di testimoniare quanto accadeva alle persone che navigano per tentare di arrivare in Europa. Mi ha particolarmente toccato vedere quei cadaveri senza nome arrivare sulla costa e non avere una degna sepoltura, allora mi è venuto in mente di costruire la croce col legno dei barconi, per cercare di dare dignità a questi corpi di uomini e donne. La croce, in fondo, è un segno di rinascita e riscatto della vita».

Come coinvolgono gli abitanti dell’isola questi eventi drammatici?

«Basta che la situazione sull’isola diventi un po’ più critica, quando per esempio il numero di migranti diventa molto alto e il centro di accoglienza non riesce a gestirli tutti, che il resto dell’isola si attivi: io e tanti altri lampedusani siamo sempre stati pronti a soccorrere le persone sbarcate, anche solo portando qualcosa di caldo da bere e da mangiare. Si fa qualche telefonata e con il coinvolgimento di tutti si trovano indumenti, cibo e la disponibilità perché i migranti possano lavarsi e riposarsi. Quando vedi qualcuno sperso e infreddolito non puoi che aiutarlo e gli isolani sono sempre attivi, hanno dentro il seme dell’accoglienza».

Cosa puoi dire dell’attenzione che i media danno all’isola?

«I media molte volte hanno esagerato su quello che accade a Lampedusa: spesso non c’è l’emergenza che traspare dai mezzi di informazione. Mentre noi stiamo vivendo l’emergenza con tranquillità, i media esasperano la situazione lasciando immaginare un’isola sempre invasa dai migranti che infastidiscono gli abitanti. In questi anni i lampedusani hanno imparato a convivere con tutto ciò, anche se l’80% della popolazione vive di turismo, settore che ovviamente ha risentito della situazione. Può succedere che di un naufragio avvenuto lontano se ne parli come se fosse successo a Lampedusa creando scompiglio tra gli abitanti.

In alcuni periodi prima del 2009, quando avvenivano naufragi o arrivavano corpi sulla spiaggia non se ne parlava, sembrava che si volesse nascondere quello che succedeva quaggiù perché riguardava noi e non il resto del paese o il nord Europa. Avrebbero voluto che tutto si fermasse a Lampedusa, ma un’isola così piccola non può fermare un flusso migratorio; noi sull’isola siamo 6000 ed è difficile, come successo nel 2011, che potessimo accogliere 10.000 migranti».

Ormai questi oggetti che ha fabbricato sono esposti in tutto il mondo. Qual’è il messaggio che vorrebbe queste croci trasmettessero?

«Le croci che costruisco col legno dei barconi vengono chiamate “croci dei migranti”.

È stata importante la visita sull’isola del Papa, lui ha voluto celebrare la messa circondato da questo materiale, il legno abbandonato e povero che rappresenta la vita di queste persone in viaggio, considerate le ultime sulla terra; per l’occasione ho costruito l’altare, l’ambone, il pastorale e il calice con i resti dei barconi. È stata una giornata molto intensa anche per via del messaggio di grande umanità e solidarietà lanciato dal Papa.

Quando il direttore del British Museum mi ha invitato a costruire una croce ho pensato che la mia opera potesse diventare un veicolo perché tutti, soprattutto i più giovani, venissero a conoscenza delle problematiche legate al fenomeno della migrazione, che si imparasse a dare più voce e più rispetto a chi si sposta per salvarsi la vita, per cercarne una libera e dignitosa. La croce, per me, è questo: un messaggio di accoglienza».

Foto Radio Beckwith