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I 90 anni dell’Arabia Saudita, tra scontri e rischi

Il novantesimo anniversario della nascita dell’Arabia Saudita, fondata proprio l’8 gennaio del 1926 dal re Abdul-Aziz ibn Saudin seguito all’unificazione dei territori della penisola arabica, è segnato dalle polemiche relative alla condotta della monarchia wahhabita in rapporto con il mondo sciita.

Il 2016 comincia nel nome della tensione

Con le 47 persone uccise, qualcuno direbbe “giustiziate”, il 2 gennaio, le autorità saudite hanno compiuto la più grande esecuzione di massa degli ultimi 35 anni, segnando un inizio di anno addirittura peggiore rispetto al 2015, quando furono 158 le esecuzioni capitali. Tra i condannati c’erano almeno quattro sciiti, incluso l’ayatollah sciita Nimr Baqr al-Nimr, condannato a morte nel 2014 dopo che un tribunale saudita lo aveva accusato sulla base di accuse legate alla sua critica politica nei confronti del governo saudita. Le 47 esecuzioni, la gran parte avvenuta per decapitazione, sono state eseguite all’interno delle carceri in 12 diverse province dell’Arabia Saudita, e secondo la direttrice per il Medio Oriente dell’organizzazione Human Rights Watch, Sarah Leah Whitson, «l’Arabia Saudita ha cominciato l’anno in modo vergognoso». La questione, però, non è soltanto legata al rispetto dei diritti umani, che vanno sempre mantenuti in primo piano, ma ha una serie di ripercussioni globali.

Nuovi equilibri

L’uccisione di al-Nimr va inquadrata nello storico conflitto arabo–persiano e nella cornice del fragile equilibrio mediorientale, sempre più in bilico nell’ultimo decennio, che ha visto numerosi mutamenti a livello regionale, ma pochi in seno alla monarchia saudita. Il paese, infatti, è qualcosa di molto simile a un possedimento personale della famiglia regnante, fondato dal punto di vista economico sul benessere garantito dalla grande ricchezza di giacimenti petroliferi scoperti a partire dal 1938 e legittimato dall’ideologia wahhabita, che permette alla famiglia Saud di svolgere il ruolo di custode di Mecca e Medina, luoghi sacri dell’Islam. Sull’altra sponda del Golfo Persico, invece, si affaccia l’Iran, paese sciita erede in termini storici della tradizione persiana.

Nel corso dei decenni, i due paesi hanno combattuto numerose guerre per procura, da quella libanese degli anni Settanta e Ottanta fino alle primavere arabe del 2011 in Yemen e Bahrein e alla guerra siriana cominciata lo stesso anno, e lo scontro di questi primi giorni del 2016 sembrerebbe inserito in questa cornice. Riyad, infatti, accusa da sempre Teheran di finanziare i movimenti autonomisti nella provincia orientale di Al-Sharqiyya, la più ricca di giacimenti petroliferi in Arabia Saudita e a maggioranza sciita. Tuttavia, lo sciismo saudita non va necessariamente collegato a un’azione diretta dell’Iran, ma va inquadrato come un avvertimento su scala regionale. L’accordo sul nucleare iraniano, fortemente voluto dall’amministrazione Obama, nei prossimi mesi dovrebbe porre fine a gran parte delle sanzioni che pesano sull’economia e sulla politica di Teheran e aprire a una stagione di mutati equilibri nel Golfo e in tutto il Medio Oriente, costringendo l’Arabia Saudita a ridefinire la propria posizione nell’area. In questa prospettiva va inserita la strategia energetica saudita: Riyad, infatti, dal 2014 ha cominciato ad aumentare la produzione di petrolio con il preciso scopo di determinare un crollo del prezzo del greggio e rendere al tempo stesso fallimentare il rientro iraniano nel mercato degli idrocarburi e poco conveniente l’estrazione dello shale oil statunitense.

Minimi storici

Dal 6 gennaio in poi, sia l’indice europeo Brent sia quello statunitense Wti sono scesi sotto i 35 dollari al barile, superando verso il basso una soglia mai toccata dal luglio del 2004. Da questo punto di vista la decisione dell’Arabia Saudita sta dando risultati, perché l’Iran, per avere un vero vantaggio nel suo ritorno alla vendita di petrolio su scala globale, avrebbe bisogno di un prezzo del petrolio superiore agli 80 dollari al barile, mentre per quanto riguarda lo shale oil la soglia della convenienza si attesta tra i 60 e i 65 dollari al barile.

Tuttavia, questa mossa ha dei costi molto elevati anche per Riyad: si stima, anche se le informazioni non sono trasparenti, che il livello di costo ideale per il petrolio saudita sia di 45 dollari al barile, 10 dollari in più rispetto all’attuale prezzo. Un simile crollo sta quindi provocando gravi danni anche allo stesso paese che l’ha causato, mettendo a rischio anche la sua tenuta. Nel 2015, infatti, Riyad ha registrato un deficit di bilancio di circa 100 miliardi di dollari, pari al 15% del proprio Pil, e quest’anno sarà costretta a tagli nella spesa pubblica e all’imposizione di nuove tasse per non dover affrontare una crisi economica senza precedenti in un paese che ha fondato il proprio consenso sullo stato sociale e sulla pressoché inesistente pressione fiscale.

Inoltre, dal punto di vista politico i successi sono pressoché inesistenti: gli statunitensi hanno confermato la politica di distensione nei confronti dell’Iran, mentre la Russia, ago della bilancia in Siria in questo momento, ha risposto aumentando il proprio sostegno al regime di Bashar al-Assad, storico alleato dell’Iran, anche in opposizione ai gruppi ribelli sostenuti dall’Arabia Saudita. Allo stesso modo, sul fronte interno i tagli che dovranno essere applicati durante il 2016 sono potenzialmente distruttivi.

Avvertimenti

È facile pensare, a questo punto, che l’esecuzione dell’ayatollah sciita al-Nimr, apparentemente priva di senso, vada letta come un avvertimento alla popolazione sciita al di qua e al di là del Golfo Persico, invitando Teheran a rispondere militarmente alla provocazione e gli Stati Uniti a scegliere da che parte stare rinunciando all’instaurazione di un sistema di equilibri più bilanciato rispetto al passato. Il consenso basato sul petrolio sembra essere entrato in crisi in gran parte del mondo, dal Venezuela al Golfo, e questo deve preoccupare soprattutto per via delle reazioni della famiglia Saud a un potere che rischia di sgretolarsi e che cercherà di mantenere in tutti i modi.

Va però notato che, in quello che viene descritto da sempre come uno scontro confessionale tra sciiti e sunniti, i due rami maggioritari dell’Islam, c’è una grande assente: la religione.

Foto: “Riyadh is among the Top 50 Safest Cities of the World” by Nora.alsh2 – Own work. Licensed under CC BY-SA 4.0 via Commons.