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Lila, La ragazza perduta e l’anziano pastore

Terzo romanzo di Marilynne Robinson tradotto in Italia, Lila è ancora una volta dedicato agli stessi personaggi ed è situato nella medesima ambientazione dei precedenti Gilead (2008) e Casa (2011). I fatti di cui si narra sono gli stessi, ma con punti di vista e tecniche narrative differenti; tutt’al più viene approfondita una parte della vicenda, o ne vengono seguiti da vicino gli antecedenti.

L’ambientazione è quella di Gilead, cittadina dello Iowa il cui nome si rifà a Galaad, patria di Jefte (Giudici 11), una di quelle zone in cui si manifestò un grande impegno evangelico per l’abolizione della schiavitù. John Ames, pastore congregazionalista, figlio e nipote di pastori, sposatosi in tarda età con una ragazza arrivata per caso nella sua chiesa durante un culto, scrive in Gilead una lunga lettera al figlio perché, malato di cuore, sa che non lo seguirà a lungo nella sua crescita. Ma John Ames è anche da tempo collega e amico fraterno del reverendo Boughton, pastore presbiteriano, che ha chiamato uno dei propri figli con nome e cognome del collega. Boughton e i suoi figli sono i protagonisti di Casa, le cui vicende (soprattutto il ritorno del «figliol prodigo» Jack e il suo rapporto con la sorella Glory, ritornata dal padre pochi anni prima, dopo il fallimento di un matrimonio) il rev. Ames inserisce a sua volta nella sua epistola al figlio. Gilead è dunque un racconto sotto forma di lettera; Casa invece alterna i punti di vista dei diversi personaggi: il rev. Boughton, trasposizione moderna del «padre misericordioso», la figlia Glory, il figlio Jack.

E veniamo a Lila: Lila è il nome della bambina che una strana donna sbandata ma buona, Doll, salva dalla fame e dai maltrattamenti che subiva in casa (cioè in una capanna): dopo lunghi anni passati andando raminga tra piccoli avventurieri e transitando per un bordello, la ragazza arriva nella chiesa dove il pastore Ames sta tenendo il culto; arriva fradicia di pioggia e inconsapevolmente desiderosa di dare un senso alla propria vita. E sposa il pastore. Questo è il terzo romanzo, il punto di vista di Lila, ma anche il punto di vista della tenerezza e della vita che prosegue. Lila infatti resta incinta di questo predicatore di 67 anni, che la incoraggia (senza essere affliggente) a leggere la Bibbia; che le spiega che cosa sia la Grazia (p. 137; 233); che accetta l’idea che un domani più o meno lontano la giovane moglie sarà altrove, e altrove sarà il loro bambino.

Come per ogni grande romanzo, il pregio del libro risiede innanzitutto nel modo in cui la vicenda è narrata: una prosa che racconta ma è anche meditativa e lentamente fluente; bello nel ritmo, è commovente e drammatico in momenti diversi. Certo, per il lettore biblicamente avvertito, queste pagine sono una miniera di scoperte e riscoperte, di rimandi e riferimenti più o meno diretti: «il giorno che nascesti l’ombelico non ti fu tagliato» (Ezechiele 16, 4); un lungo discorso fra Lila e il marito sulla misericordia di Dio – non è dunque solo l’anno giubilare a orientare la nostra attenzione sulla questione della misericordia, peraltro tema luterano per eccellenza (pp. 103-104); il salmo 19: i cieli raccontano la gloria di Dio.

Ma i libri di Marilynne Robinson vengono tradotti e letti come si conviene a una grande scrittrice anche in Italia, dove questa consapevolezza biblica è rara; dunque, al di là dei meriti più strettamente letterari, ci deve essere qualcosa d’altro, che emerge dal tono, dal registro dei dialoghi fra moglie e marito pastore. Vedrei tre elementi, uno conseguente all’altro. Innanzitutto Lila racconta la fede, e non può farlo altrimenti che raccontando la vita concreta dei credenti, fatta anche di debolezze e contraddizioni (i credenti non sono dei marziani, anche se tanta cultura oggi sembrerebbe considerarli tali); evidentissime nei propositi a tratti ancora bellicosi di Lila, cresciuta nella violenza e nell’assenza di affetti per i suoi primi anni, le incertezze fanno capolino anche nell’animo del pastore che si avvia all’ultima sua stagione: «Mi sento come Mosè sulla montagna, mentre scruta la vita che non avrà mai. Poi penso alla vita che ho. E questo mi fa pensare alla vita che non avrò. Tanta bellissima vita…» (p. 268).

Secondo: più precisamente, la fede non ci mette al riparo dal vivere le nostre fragilità, perché, addirittura «in noi c’è più vita di quanta ne possiamo sopportare» (p. 273), ma ci fa capire che di fronte a queste non siamo soli, e che se non tutto capiamo oggi (vediamo ora come in uno specchio, oscuramente), un giorno capiremo: il senso che non riusciamo a cogliere sempre nelle nostre vite, non è assenza di senso. In conclusione al libro si dice: «Non c’era modo di abbandonare la colpa (…). Di tutti i grovigli e i nodi del risentimento e della disperazione e della paura si doveva avere pietà» (p. 272). Dice il pastore citando Calvino (fra virgolette): «la sola vera conoscenza di Dio nasce dall’obbedienza» (p. 232). In questo mondo siamo liberi di sbagliare, siamo messi alla prova ogni giorno non solo dalle sofferenze ma anche dalle decisioni da prendere, per noi e per il nostro prossimo, ma sappiamo che la vera libertà sta nel farci liberare in Cristo.

 M. Robinson, Lila, Torino, Einaudi, 2015, pp. 273

Foto: “Marilynne Robinson” by Christian Scott Heinen BellOwn work. Licensed under CC0 via Commons.