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Il faro di Misna rischia di spegnersi

Ancora una vittima della crisi dell’editoria religiosa in Europa: dopo il caso di Rts, che abbiamo raccontato poche settimane fa, spostiamo l’attenzione su un’esperienza legata al cattolicesimo missionario.

Misna, Missionary International Service News Agency, è un’agenzia stampa nata nel 1997 con l’obiettivo di informare sui paesi in via di sviluppo attraverso la rete di missionari che si trovano in loco per il loro servizio come particolari “corrispondenti”. L’agenzia è gestita dagli istituti missionari cattolici, in particolare la Consolata, i Comboniani, i Saveriani e dal PIME.

Pochi giorni fa, l’editore ha annunciato la chiusura al 31 dicembre 2015, lasciando spiazzata la redazione di quattro giornalisti, due collaboratori e quattro traduttori. Il valore aggiunto di questo servizio, oltre a fare luce su luoghi e situazioni difficilmente raccontate dai media mainstream, è anche dare le notizie dal punto di vista delle popolazioni locali, con le quali i missionari collaborano: le popolazioni, le associazioni per la società civile, le giovani chiese riescono a avere un occhio interessante in luoghi in cui non sempre la libertà di stampa è garantita. «Noi abbiamo a che fare con i missionari le cui informazioni devono essere editate da professionisti per diventare notizie – dice Alessia De Luca, giornalista dell’agenzia – e attraverso sinergie editoriali qualcosa si sarebbe potuto fare per evitare la chiusura».

Come è emerso il problema?

«I problemi economici hanno accompagnato Misna dalla sua nascita, anche per scelte editoriali, come quella di lasciare le notizie “in chiaro”: Misna diffonde le notizie gratuitamente, in questo modo le nostre fonti di reddito dovevano necessariamente provenire dai nostri editori. Con il passare degli anni la situazione economica è cambiata, la crisi ha fatto la sua parte e, secondo noi, non c’è stata una riflessione lungimirante sui problemi che si prospettavano all’orizzonte. Molti problemi avrebbero potuto essere superati creando delle sinergie con altri media cattolici, studiando le nuove piattaforme e tecnologie che danno la possibilità di contenere i costi salvaguardando la professione giornalistica, che per noi è fondamentale. La nostra sensazione è che niente di tutto questo sia stato fatto né pensato».

Non solo una questione economica, dunque?

«La crisi sta investendo molta stampa missionaria (e cattolica in generale), ma è il riflesso di una crisi più profonda di ideali e di motivazioni che in passato avevano portato alla nascita di queste realtà, che volevano costituire veramente un punto di riferimento per una controinformazione. La crisi dunque è mista: sembra esserci una sorta di stanchezza da parte degli istituti missionari, che fa sì che si stia compiendo un grave errore. La chiusura di Misna è soltanto l’ultima di una lunga serie: l’editoria cattolica è stata falcidiata negli anni, e abbiamo visto sparire voci che raccontavano il mondo con passione e competenza, da parte di giornalisti laici ma che sapevano lavorare in sinergia con gli ambienti religiosi».

Con papa Francesco il sud del mondo sembra essere tornato al centro dell’attenzione nella Chiesa cattolica: come è possibile che non si trovino i fondi?

«Questo è quello che stiamo cercando di capire anche noi: riteniamo incomprensibile chiudere Misna all’indomani dell’apertura della porta del Giubileo della Misericordia per la prima volta in Africa, a Bangui, paese dilaniato dalla guerra civile, proprio per illuminare quelle periferie tanto care a papa Francesco. Chiudere Misna implica rinunciare a quegli strumenti che aiutano a comprenderle e raccontarle. Avevamo attraversato una crisi simile nel 2009: sappiamo che i nostri editori si prodigano per le missioni, non sono certamente gli esponenti più ricchi della Chiesa cattolica. Però in altre situazioni di difficoltà c’è sempre stato un dialogo tra i giornalisti e l’editore, cosa che aveva poi consentito di riuscire a scongiurare la chiusura. In questo caso abbiamo proposto di tagliare gli stipendi, di entrare in uno stato di crisi che consentisse all’azienda di rifiatare e di cercare nuove fonti di reddito, ma ci è stata comunicata la volontà imminente di chiudere il 31 dicembre senza nessuna possibilità di discussione e di negoziato».

Come avete reagito?

«Abbiamo lanciato una petizione su change e scritto una lettera aperta al Papa, sperando che a pochi giorni dal Natale qualcosa si muova. Perché “la voce degli ultimi”, come spesso ci hanno soprannominato, non si spenga senza lasciare traccia, e in modo che qualcosa venga fatto per salvaguardare un pezzo importante dell’informazione in Italia».

Qual è secondo lei il senso e il ruolo dell’informazione “laica” ma a matrice religiosa, come la vostra?

«Credo che sia un ruolo fondamentale, soprattutto in questo momento storico. Ascoltando i discorsi e le parole del papa, questo si rende evidente, vista l’importanza che dà alla comunicazione. I mezzi di comunicazione sono importanti per la chiesa che si fa missione oggi, in cui raggiungere determinate realtà del mondo grazie ai telefoni satellitari è molto più semplice, così come stare vicino a chi opera in quei luoghi. Possiamo offrire un giornalismo che dia al pubblico un’interpretazione dei fatti senza cedere ai populismi, alla generalizzazione o alla banalizzazione. Abbiamo una grande opportunità per creare una globalizzazione etica e contribuire a cambiare il percorso che sta prendendo la nostra realtà».