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Il regolamento di Dublino è una finzione

La scorsa settimana la Commissione europea ha adottato un procedimento di infrazione verso l’Italia e altri quattro paesi per il mancato rispetto delle leggi inerenti al sistema europeo di asilo. In particolare, a Roma viene contestato di non aver correttamente identificato i migranti arrivati o transitati sul suolo italiano tramite il fotosegnalamento, un termine molto generico ma che si traduce nella raccolta delle impronte digitali, un’azione che il nostro paese ha omesso di compiere, si stima, nei confronti di almeno 50.000 persone sbarcate e transitate in Italia.

Si tratta, come raccontato in una recente intervista su Riforma.it da Chiara Favilli, docente di Diritto dell’unione europea presso l’università di Firenze, di una procedura a carattere tecnico, dotata però di un certo grado di discrezionalità nella scelta di intervenire o meno. Per Gianfranco Schiavone, membro del consiglio direttivo di Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici dell’immigrazione, «la Commissione europea ha in effetti l’obbligo di vigilare sul rispetto del diritto dell’Unione, e quindi di per sé deve assumere iniziative anche in campi che possono sembrare sgradevoli, come questo». Mettendo sul piatto entrambi gli sguardi e sottraendosi alla logica dello schieramento tra le posizioni italiana e europea, è necessario tenere conto di almeno due fattori: le condizioni straordinarie degli sbarchi degli ultimi due anni e la normativa italiana sul fotosegnalamento.

La situazione

I fatti contestati dalla Commissione europea partono dalla prima metà del 2014, un periodo nel quale l’Italia si è trovata del tutto impreparata di fronte ad arrivi molto più intensi rispetto al passato e che sono stati gestiti da un sistema che Schiavone definisce «di gran lunga inefficiente rispetto alle esigenze. L’Italia è, ma soprattutto era fino alla fine del 2014, un paese con un sistema di accoglienza caotico e male organizzato». Questi problemi, noti già da tempo, erano stati oggetti negli scorsi anni di segnalazioni da parte di varie realtà non governative italiane, tra cui l’Asgi, ma la Commissione europea aveva deciso di non intervenire e non aprire procedure d’infrazione. «Detto ciò – prosegue Schiavone – mi sembra che si sottovaluti che quel tipo di arrivi abbiano creato e creino una situazione di oggettiva emergenza, e che le esigenze di soccorso delle persone siano state appunto fatte in un contesto che in sé e per sé ostacolava le operazioni di identificazione». Esattamente come l’Italia, anche la Grecia, punto di partenza della cosiddetta “rotta balcanica”, si è ritrovata di fronte alla contestazione europea sulla mancata registrazione dei richiedenti asilo. Per i due paesi il problema è lo stesso: gli arrivi via mare, il soccorso e il recupero delle persone nelle acque del Mediterraneo rappresentano una sfida, gestionale e umana, da non sottovalutare.

La legge

In seconda battuta, la normativa italiana proibisce tassativamente di operare violenza sulle persone per raccoglierne le impronte. Nonostante a fine ottobre il ministero dell’Interno avesse ipotizzato di modificare la legge rendendo legittima la registrazione coatta delle impronte e ricorrendo anche al trattenimento nei Cie per raggiungere l’obiettivo, l’attuale quadro rimane molto tutelante, perché inserisce tra i comportamenti inaccettabili qualsiasi forma di uso della forza per convincere le persone a rilasciare le impronte digitali. «Una modifica in quel senso – prosegue Schiavone – porterebbe con sé numerosi problemi giuridici. Noi speriamo rimanga così com’è».

C’è tuttavia un dato che fa capire quanto alle spalle delle mancanze ravvisate dalla Commissione europea ci siano motivi politici, prima ancora che problemi pratici e logistici: da quando in sede europea si è raggiunto l’accordo per il ricollocamento dei richiedenti asilo, in particolare eritrei e siriani, la percentuale di persone regolarmente identificate e registrate è passata dal 70% al 95%. «Il fatto – racconta la professoressa Favilli – è che senza il ricollocamento l’Italia non ha un forte interesse a procedere all’identificazione, perché questo significa fissare il nostro paese come stato competente nell’esame delle domande, ma anche eventualmente per l’allontanamento di queste persone».

L’alternativa

Il problema principale della procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia è legato all’efficacia: se il regolamento Eurodac, e quindi la raccolta delle impronte, fosse implementato in modo rigido e totale da ogni paese, non ci sarebbero comunque vantaggi nel funzionamento del sistema di gestione dell’immigrazione. «Come la Commissione europea sa benissimo e come tutti gli studi sull’argomento compresi quelli della Commissione confermano, – spiega Gianfranco Schiavone – il regolamento di Dublino è inefficace: siamo di fronte a una norma superata dal tempo, nata in un contesto completamente diverso, quello del 1990, ma che prima di tutto è completamente inapplicabile». Il numero dei trasferimenti realmente eseguiti da un paese all’altro è nell’ordine di alcune centinaia di individui, un dato minuscolo rispetto al piano europeo, che prevede una nuova destinazione per circa 160.000 persone. «Il rapporto tra le risorse impiegate e le sofferenze umane che il sistema stesso provoca, è un rapporto quasi totalmente negativo». La soluzione, secondo varie organizzazioni che si occupano di migrazioni, sarebbe quella di impegnarsi in una seria riforma del regolamento di Dublino, ma la prospettiva sembra molto lontana. «Diversi Stati – secondo Schiavone – sono restii a qualunque cambiamento, perché anche proposte ragionevoli e modeste come quelle lanciate dalla Commissione con l’agenda europea di maggio e anche con i piani di questi mesi, dal ricollocamento al reinsediamento da paesi terzi, hanno trovato un’ostilità fortissima. La Commissione si trova ad agire in un contesto difficilissimo e le principali colpe per scelte politiche stanno altrove, però è vero che la Commissione fino a oggi non ha fatto delle proposte serie, che dovranno essere necessariamente choc, perché i dati e le storie sono impietosi».

Il paradosso

Il sistema, insomma, funziona perché il regolamento di Dublino non viene applicato. Questa verità, scomoda ma innegabile, spiega molto delle rigidità europee in materia di immigrazione quando si parla delle normative e spiega molto della flessibilità dei singoli paesi quando si passa alla pratica. «Se il sistema fosse applicato – racconta Schiavone – avremmo un sistema europeo per cui i paesi come l’Italia, la Grecia, la Bulgaria o Malta, oppure quelli che in quel momento si trovano su una determinata linea geografica, diventano i paesi che assorbono praticamente tutte le domande di asilo in Europa. Un meccanismo come questo è di una rozzezza estrema: l’Europa nel 2015 non può continuare ad avere un sistema comune europeo basato sulla geografia». Se la situazione è relativamente equilibrata, insomma, questo è dovuto al fatto che, un po’ intenzionalmente e un po’ soltanto nei fatti, il regolamento di Dublino è inattuato. «Viviamo – conclude Schiavone – dentro una finzione: quella secondo cui il regolamento esiste».

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