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Cop21, molto rumore per poco

Un accordo storico ma debole. Una contraddizione in termini, come contraddittorio è l’esito delle due settimane di Cop21 a Parigi. Accordo storico per la sua ampiezza, in quanto ratificato da 195 nazioni, pressoché l’intero globo, mentre ad esempio il protocollo di Kyoto del 1997 era stato firmato da 35 paesi appena, con la totale assenza di quelli responsabili della maggior parte dell’inquinamento. Ma questa grande adesione ne è anche la principale debolezza, perché il risultato è quello di aver ottenuto un testo annacquato, ricco di buoni propositi ma assai poco stringente, evocativo ma vago e con omissioni non certo dettate dalla distrazione.

La conferenza era stata preceduta da un grande investimento mediatico volto a sottolinearne l’importanza decisiva, l’ultimo appello per salvare il pianeta, con l’utilizzo di un linguaggio apocalittico. Temi da anni al centro delle riflessioni di molti movimenti ambientalisti, ma anche di moltissime comunità di fede, negli ultimi mesi parevano esser diventati patrimonio comune, con tanto di passarella di leader di paesi responsabili di disastri ambientali enormi, pronti nelle dichiarazioni ad esternare la propria primaria e assoluta devozione alle campagne “green”.

Proprio le chiese, quelle protestanti in particolare, hanno posto enorme fiducia nell’appuntamento parigino e hanno attuato con convinzione moltissime campagne, compiuto pellegrinaggi da ogni parte del mondo, firmato appelli, sottoscritto mozioni, tutte volte ad implorare i leader politici a prendere sul serio la questione: proprio nei giorni del summit il pastore Olav Fykse Tveit, segretario generale del Consiglio ecumenico delle chiese (Cec), si era rivolto ai ministri e ai capi delegazione riuniti a Parigi a nome di oltre 150 leader di diverse tradizioni religiose –che lo scorso ottobre avevano sottoscritto un appello consegnato a Christiana Figueres, segretaria esecutiva dell’Onu per la Convenzione sul cambiamento climatico. In particolare, il documento dei 150 leader religiosi chiedeva un accordo equo, ambizioso e vincolante applicabile a tutte le nazioni per eliminare entro la metà del secolo le emissioni di gas serra e l’adozione al 100% di energie rinnovabili per rimanere sotto un aumento della temperatura globale di 1,5/2 gradi centigradi.

Cerchiamo di entrare un poco nel dettaglio del testo finale, prodotto delle incessanti mediazioni di oltre settemila tecnici, i cosiddetti “sherpa”, i lavoratori dietro le quinte, che dopo le roboanti dichiarazioni dei capi di stato e di governo, hanno dovuto lavorare di cesello, spesso anche di piccone, nel tentativo di far quadrare il cerchio.

Cosa funziona:

  • Innanzitutto come dicevamo funziona la portata globale dell’accordo. Il tema della salvaguardia del pianeta Terra sembra aver fatto breccia anche laddove non era mai stato avvertito come priorità, cioè nelle nazioni più ricche e maggiormente responsabili delle emissioni di gas serra, quali Cina, India, Stati Uniti

  • Positivo il riferimento all’oramai arcinoto contenimento del riscaldamento globale ben al di sotto dei 2 gradi centigradi in questo secolo, con sforzi per limitarlo ad 1,5

  • Positive le verifiche quinquennali che dovrebbero fare il punto sullo stato dei lavori di ogni paese, su quanto cioè stanno facendo per ridurre le emissioni

Cosa non funziona:

  • Intanto si tratta di un accordo e non di un trattato internazionale, per cui non vi sono vincoli obbligatori. Fosse stato un trattato con obblighi da rispettare, la costituzione degli Stati Uniti, fra i principali inquinatori del pianeta, avrebbe previsto una necessaria ratifica del Congresso, che però è a maggioranza repubblicana, partito i cui leader sono in aperto contrasto con la visione definita “catastrofista” , per cui mai e poi mai avrebbero votato il testo. Sta quindi a ciascuno stato adeguare le proprie politiche energetiche in maniera autonoma

  • Male che non entri subito in vigore, ma soltanto dal 2021: moltissimi scienziati ci stanno spiegando che il tempo è ampiamente scaduto, ma noi continuiamo a prendere tempo

  • Appaiono poco chiari i meccanismi di controllo quinquennali: chi li attuerà, come si articoleranno?

  • Il trasporto aereo e quello marittimo sono completamente esclusi dall’obbligo di ridurre le emissioni di CO2, e si tratta di una lacuna gravissima che esclude dai ragionamenti i responsabili del 18% delle emissioni mondiali. Ma le merci devono poter “girare”, hanno urlato i colossi dell’import-export

  • Troppo basso il fondo di 100 miliardi di dollari annuo da destinare ai paesi in via di sviluppo perché possano avviare politiche incentrate sulle fonti rinnovabili e perché possano prendere misure di contenimento dei disastri avvenuti per lo più a causa dei paesi ricchi. Tale cifra viene considerata un’inezia dagli scienziati

  • Ecco uno degli snodi centrali dell’accordo, il vero motivo per cui la ratifica è slittata di 24 ore rispetto a quanto previsto: sono scomparsi i riferimenti ai “loss and damage”, le perdite e i danni irreparabili subiti dai paesi vulnerabili a causa dei cambiamenti climatici causati dalle nazioni industrializzate. Si è tolta in questa maniera ogni possibilità di richiesta di indennizzo da parte delle nazioni più esposte verso le più ricche. Su questo punto Stati Uniti e Europa sono stati inamovibili, tanto che l’accordo globale ha rischiato di saltare. Nessun colpevole di quanto avvenuto fino ad ora. Si volta pagina, siamo stati monelli, ma ci impegniamo, a parole, a fare meglio

  • Assai confuso il capitolo riservato ai combustili fossili: scomparso ogni riferimento alle emissioni zero di carbone, petrolio e gas, per il sollievo delle grandi industrie e delle nazioni in via di sviluppo che su essi basano ancora larga parte dell’economia. Si parla ora, al posto di “neutralità carbonica”, di “equilibrio fra emissioni da attività umane e rimozioni di gas serra” da attuare “il più presto possibile”. L’equilibrio si può raggiungere anche piantando alberi che bilancino l’emissione di gas serra, ma ciò non sarà mai e poi mai efficace quanto un’emissione zero.

  • Troppo vaghi i riferimenti temporali: il testo è zeppo di locuzioni quali “il più presto possibile”, “seconda metà del secolo”, con conseguente diluizione e vaghezza degli impegni presi

Il testo che esce dalle due settimane di COP21 porterebbe ad un aumento di 3 gradi centigradi da qui al 2100, ben al di sopra dei 2 o addirittura 1,5 gradi posti come obiettivo. Quindi non basta, le misure non sono sufficienti. Da qui l’impegno a rivedere in termini via via più stringenti gli accordi ogni cinque anni, ma tutto sarà in capo alla buona volontà delle singole nazioni.

L’appello siglato dai 154 leader religiosi, compreso il moderatore della Tavola valdese Eugenio Bernardini sottolineava come la «La COP21 offre un’occasione unica per contribuire al bene comune dell’umanità, il momento giusto per iniziare una trasformazione strutturale e individuale senza precedenti; i governi non si possono sottrarre al dovere morale di accordarsi sui passi concreti e definiti verso la giustizia climatica». I governi non si sono forse sottratti, ma lo hanno fatto con ancora troppa timidezza.

I primi commenti a caldo rispecchiano la sensazione di attesa delusa, seppur si vuol giustamente far prevalere gli auspici rispetto alle cassandre: Guy Liagre, Segretario generale della Kek, la Conferenza delle chiese europee saluta l’accordo «come un segnale di speranza, una significativa ricognizione delle necessità globali e delle azioni comuni da attuare sul tema», mentre Peter Pavlovic, Segretario dell’Ecen, Network cristiano europeo sull’ambiente parla di «significativo lavoro di implementazione che si apre davanti a noi. Dobbiamo auspicare che le buone intenzioni del testo verranno onorate, e al contempo siamo tutti noi chiamati a rimettere in discussione molte delle abitudini delle nostre società industrializzate».

Foto via Flickr di COP PARIS | Licenza CC0 1.0