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Le attese e le sfide della conferenza sul clima di Parigi

Continua a Parigi la Cop 21, la Conferenza sul Clima 2015, dove centocinquanta capi di stato e di governo discutono per trovare un accordo per limitare la produzione di gas serra a partire dal 2020 e impedire alla temperatura globale di alzarsi più di due gradi rispetto all’epoca preindustriale. La popolazione si è mobilitata così come gli attivisti ambientali in diverse parti del mondo. Ne parliamo con Jens Hansen, membro della commissione sulla globalizzazione e ambiente della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (Glam).

Come vede questa conferenza e le mobilitazioni della popolazione?

«Ci sono state tensioni a Parigi e i quotidiani hanno parlato soprattutto di questo. Quando si parla di cambiamenti climatici, e ovviamente di economia, vengono messi in risalto gli episodi negativi per isolare il dissenso. Una protesta e una presenza dei movimenti è comunque necessaria perché i politici capiscano che il clima è un argomento importante per l’andamento del nostro mondo nei prossimi anni. Il problema non è solo il petrolio, ma anche il modo di fare agricoltura, che incide molto sulla produzione di Co2: in questa conferenza non se ne parla affatto. Pensiamo a quante sovvenzioni europee nel fossile, nel nucleare, nell’agricoltura di un certo tipo: cambiando gli investimenti inevitabilmente si può influire sul clima».

Si avverte una delusione per le conferenze passate?

«Sì, queste ultime non hanno dato molta speranza. Soprattutto perché non si è mai riusciti a limitare le emissioni di Co2 per garantire un aumento di temperatura nel limite dei 2°C. Ora, infatti, si parla delle difficoltà e di evitare almeno di non superare i 3°C. Un grado sembra poco, ma vediamo come il cambiamento climatico influenzi le catastrofi, così come produca conseguenze sull’agricoltura».

Negli anni l’opinione pubblica è maturata su questo tema?

«Penso che la consapevolezza stia crescendo. L’aumento delle catastrofi che viviamo sulla nostra pelle, anche qui in Italia, condiziona molto l’opinione delle persone. Le marce dei giorni scorsi a livello mondiale sono un segno di presa di coscienza sempre maggiore di fronte ai temi climatici, che in precedenza erano considerati meno».

Questa sensibilità aiuta gli Stati a prendere coscienza del problema?

«Credo che per la pressione che fanno i movimenti e la popolazione organizzata, si vedano già dei risultati positivi. Penso a Obama, e alla sua firma per non creare la Pipeline Keystone, la Shell che si è ritirata dall’artico, o al Canada che smette di prelevare la sabbia bituminosa. In ambito religioso, la Chiesa d’Inghilterra ha smesso di investire nel carbone, dunque nei combustibili fossili. I segni positivi ci sono, sia livello politico che a livello ecclesiastico».

Quindi contano anche le scelte delle chiese?

«Si. Anche li c’è una presa di coscienza dagli anni ’70 sui temi ambientali, ma per le chiese il tempo è maturo per fare. Nell’ambito della Fcei, non tutte le chiese per esempio potranno fare la Certificazione Gallo Verde/Emas come la chiesa di Milano, una cosa che ha senso nelle grandi strutture ecclesiastiche del nord Italia, con grandi edifici da amministrare, ma per le piccole chiese il Glam ha parlato di “comunità in conversione” ecologica. Ogni comunità può inventarsi nuove idee e iniziative per ridurre l’impronta ecologica nelle attività primarie della chiesa. Anche questi sono passi importanti».

Foto: “Queimada ABr 02” by Antonio Cruz, da Abr – news (access 2008/27/01. Licensed under CC BY 3.0 br via Wikimedia Commons.