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Violenza contro le donne: meno parole, più fatti

Il 25 novembre, ormai è risaputo, è la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne: convegni, dibattiti, mostre, campagne, articoli con gli ultimi dati aggiornati sono pronti per la ricorrenza, compreso questo. Tutto bene, ma persiste la sensazione che manchi qualcosa di fondamentale. Mancano innanzitutto i termini giusti. Istituita dalla Risoluzione dell’Onu 54/134 del 1999, che invitava governi, associazioni, media e società civile a sensibilizzare la società, già nella sua formulazione si ometteva di esplicitare chi sono, quasi sempre, gli artefici di questa violenza (psicologica, sessuale, fisica, a volte mortale): uomini. Nominare le cose è spesso fastidioso, ma fondamentale: le donne non muoiono per distrazione, per incuria, per errore e certamente non i “raptus” tanto spesso evocati dai giornali. Sono uccise per il semplice fatto che sono donne. Perché li hanno lasciati, perché non li hanno voluti, perché li hanno contraddetti, perché sono sfuggite al ruolo di garanti del loro io ferito.

Un anno dopo l’altro, la battaglia contro il femminicidio ha raggiunto almeno un risultato: c’è un giorno in cui ci si può lavare la coscienza su quanto non si fa veramente per non dico eliminare, ma almeno guardare, assumere l’esistenza di questa frattura sociale, che come dice la stessa Risoluzione, «deriva da una lunga tradizione di rapporti di forza disuguali fra uomini e donne, situazione che conduce alla dominazione degli uomini sulle donne e alla discriminazione di queste ultime, impedendo loro di emanciparsi pienamente (…); la violenza è uno dei principali meccanismi sociali per mezzo dei quali le donne vengono mantenute in condizioni di inferiorità rispetto agli uomini».

E poi, soprattutto, mancano i fatti. Nel 2013179 donne sono state uccise, in pratica una vittima ogni due giorni, il 68% in ambito familiare, 152 nel 2014. Non è tutto: secondo una ricerca del dipartimento pari opportunità e dell’Istituto nazionale di statistica relativa al quinquennio 2009/2014, il 31,5 per cento delle donne italiane fra i 16 e i 70 anni ha subìto violenza fisica o sessuale almeno una volta nel corso della vita. Stiamo parlando di 6 milioni e 788mila donne, una su tre: ma a denunciare resta una minoranza, per la vergogna, la paura, l’incapacità stessa di riconoscersi vittime senza colpa.

Quindi non bisogna parlarne? Certo che è necessario, e ogni anno sottolineiamo anche l’impegno delle chiese e l’8 per mille della chiesa valdese ha dedicato alla violenza di genere l’intera campagna del 2013. Però senza dimenticare le contraddizioni: se cresce l’attenzione sul tema, in particolare nelle regioni del centronord rispetto al 2013, calano però da 16,1 a 14,4 milioni gli investimenti in prevenzione e contrasto. Chiudono i centri antiviolenza, non ci sono fondi disponibili. Una legge sull’educazione all’affettività nelle scuole è ferma da anni in Parlamento perché non ci sono mai i numeri, cioè la volontà del Governo, per sostenerla.

Come a dire: ti dico che non si fa ma non ti do gli strumenti per fare in modo che non accada e che chi subisce venga preso in carico.

In cambio lievita una campagna contro l’inesistente “cultura gender” (questa sicuramente ben finanziata), che sarebbe pronta a infilarsi sotto i banchi per sedurre i bambini e trasformarli tutti in gay potenziali a minaccia della cosiddetta famiglia tradizionale. Per questo letteratura per l’infanzia contro gli stereotipi di genere viene messa al bando e, sempre per fronteggiare il pericolo, a Michela Marzano a Padova viene impedito di presentare il suo ultimo libro, Papà, mamma e gender. Su un altro fronte, un tribunale decide che se una donna ha subito maltrattamenti da parte del marito per 24 anni non può chiedere alcun risarcimento: se finora ha taciuto, lui non ha colpa.

Punti di vista? No, responsabilità politiche precise.

Foto Fdei