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Democrazia a rischio?

Dopo l’approvazione da parte del Senato della Repubblica (voti favorevoli 178, voti contrari 16, voti astenuti 7), il testo della “legge Boschi” sulla riforma del Senato passa alla Camera per la quarta lettura, quella definitiva. Il voto finale è programmato per l’11 gennaio: dopo la riforma del Senato diventerà legge, ma soltanto se riuscirà a superare il referendum costituzionale previsto per l’autunno 2016.

Con l’Italicum, questa riforma modifica di fatto la struttura portante della Costituzione, un cambiamento radicale che suscita perplessità e preoccupazioni. Ne abbiamo discusso con Mario Dogliani, docente ordinario di Diritto Costituzionale all’Università di Torino.

Sulle riforme istituzionali gli italiani saranno chiamati a esprimersi con un referendum. Non servirebbe un livello di informazione maggiore su questa materia?

«Non è che nel 1947 il popolo italiano fosse tanto più informato, ma c’era la consapevolezza che i partiti del Cln, pur esprimendo vivacemente le loro divergenze, avessero legiferato a partire da una visione condivisa della società e dello stato. Quel conflitto economico sociale, da comporre attraverso il pluralismo e la dialettica politica, in vista di fini condivisi, oggi non c’è. La Costituzione italiana aveva una struttura “compromissoria” in senso nobile: era un ponte che teneva insieme spinte contrapposte. Oggi la situazione è cambiata. Prima avevamo la democrazia fondata sui partiti , adesso non si sa più che cosa siano i partiti e non si sa più cosa sia la democrazia. E quando manca la rappresentanza politica si creano le condizioni per scorciatoie carismatico-plebiscitarie e, in definitiva, autoritarie».

Che quadro configurano le riforme del governo Renzi?

«La riforma del Senato è molto discutibile a mio avviso. E’ stata avviata in base ad affermazioni diventate luoghi comuni, circa l’ingovernabilità e la lentezza indotte dalla presenza del Senato. Erano affermazioni insostenibili dal punto di vista statistico e contraddittorie con la conclamata peste dell’inflazione legislativa. Non è affatto necessario accelerare il processo legislativo, che casomai andrebbe deflazionato, facendo meno leggi ma fatte meglio. I meccanismi escogitati per migliorare la produzione legislativa sono falliti. Il modo in cui oggi sono scritte le leggi è pessimo, la burocrazia si nasconde dietro le leggi per evitare di assumersi responsabilità. Ma si è pensato di risolvere tutto con la riforma del Senato».

Come avverrà concretamente la designazione dei senatori?

«L’essenza della rappresentanza politica moderna è la rappresentanza di tutto il popolo. Chi la realizza? Il Parlamento anche nei regimi presidenziali. Da questo punto di vista, la soluzione concordata in extremis con la minoranza Pd non è una cosa da poco. Perché è diverso se i consigli regionali distribuiscono al loro interno le varie cariche, fra le quali anche la nomina a senatore, oppure se si ancora il voto del consiglio regionale al consenso espresso dalle preferenze dei cittadini: il cittadino andrà a votare il tale consigliere regionale sapendo già che questi voterà un certo candidato al Senato, come avviene negli Stati Uniti dove i cittadini votano per i grandi elettori, sapendo già chi questi voteranno come presidente. Si tratta di un’elezione indiretta, non di un’elezione di secondo grado. Non si può però sostenere l’eresia che il Senato rappresenta le regioni, perché in una democrazia l’unico soggetto rappresentabile politicamente è il popolo. L’analogia con il Bundesrat tedesco non regge, perché la struttura federale tedesca, le cui origini risalgono a sei secoli fa, riconosce tuttora i lander come veri e propri stati sovrani dotati di autonomia».

Qualcuno ha evidenziato la differenza fra lo stile degli articoli del nuovo Senato, prolisso, tortuoso e non chiaro, e quello degli articoli della Costituzione, conciso e comprensibile.

«La qualità della legislazione è pessima: leggi farcite di commi e rinvii ad altre leggi, illeggibili per una persona normale. L’obiettivo deve essere fare bene le leggi, a meno che non si vogliano fare operazioni esclusivamente pubblicitarie. Il vero problema è migliorare la qualità della legislazione».

Molti autorevoli costituzionalisti temono che la riforma del senato e la legge elettorale creino le condizioni per una svolta autoritaria.

«Il pericolo c’è. Finora l’indirizzo politico dello stato si articola in 3 fasi: 1) la lotta politica tra i partiti; 2) la competizione elettorale 3); la formazione del governo ad opera del partito, o della coalizione vincente, che con il suo programma determina l’indirizzo politico. Con questo nuovo sistema quel continuum tra volontà popolare, rappresentanza politica, accordi e formazione del governo viene meno, perché può succedere che un partito vinca il premio di maggioranza e anche con una piccola rappresentanza degli elettori, arrivi a controllare la Camera; oppure – come abbiamo già visto – che il partito di maggioranza relativa che non raggiunge il 40% venga ribaltato nel ballottaggio da accordi contro. Viene così introdotto un elemento di casualità o di ingovernabilità e diventa problematico ricondurre ad una volontà popolare le determinazioni dell’indirizzo politico. Un’elezione con premi di maggioranza, personalizzazione dei partiti e della leadership, sottoporrà ad un elettorato più o meno ignaro offerte politiche elaborate altrove. Siamo ai limiti della permanenza nel sistema parlamentare, perché l’organo cui è attribuita la funzione di indirizzo politico non è più il Parlamento, o la Camera – ovvero l’insieme dei partiti chiamati a determinare la politica nazionale – ma è il premier, direttamente eletto a capo della maggioranza parlamentare».

Il governo ha detto di perseguire l’obbiettivo prioritario della governabilità.

«L’unico modo per fondare una costituzione democratica è la ricerca dell’overlapping consensus, cioè il compromesso – inteso nel senso più alto e nobile della parola – che impone di restringere il campo delle decisioni costituenti al minimo comune denominatore dei gruppi in conflitto. Si è proceduto invece in base allo slogan “Ho i voti e vado avanti”, che è l’opposto dello spirito costituzionale. Si dice che il minimo comune denominatore fosse la volontà di rendere efficiente la guida politica, ma la realizzazione di coalizioni politiche solide non è un problema di costituzione. Una guida efficiente si fonda sulla forza dei partiti politici e dei loro programmi.

Lei sta dicendo che se passa questo disegno di riforma istituzionale viene meno la Costituzione?

«Sì, la Costituzione intesa come, valore durevole per il futuro e trascendente le parti, come fine condiviso, cade».

Lei è scettico anche sulla possibilità di limitare i danni?

«Effettivamente sì, avendo visto cosa si è fatto in questi anni. Non c’è una classe politica all’altezza. Alcuni costituzionalisti negarono la legittimità alla commissione Letta – che era solo una commissione propositiva – mentre essa prevedeva la possibilità di accantonare il modello semipresidenziale, di apportare correzioni in senso proporzionale ed anche, saggiamente, che la fase referendaria fosse svolta da una commissione parlamentare unica. Si sarebbe potuto dimezzare il numero dei deputati e dei senatori e ripristinare una po’ di centralismo per il controllo delle spese, ma le cose sono andate diversamente».

Come andrà il referendum?

«Il referendum propositivo non prevede il quorum. Se vanno a votare i contrari e cresce la fascia degli astenuti la legge decade. Ma potrebbe anche esserci una mobilitazione di chi di solito si astiene, per votare a favore. Il risultato è aperto».

Foto “Palazzo Madama – Roma” di Francesco Gasparetti dal Senigallia, ItalyFlickr. Con licenza CC BY 2.0 tramite Wikimedia Commons.