5515304450_9febe1eb53_b

L’uomo che cambiò uno sport

Nella storia, nella politica, fin nella cronaca, spesso si utilizzano i termini di prima e dopo a suggellare un avvenimento spartiacque, l’avvio di un nuovo corso, una tragedia che non lascerà nulla come prima.

Più modestamente questo accade anche nello sport quando si affacciano sul palcoscenico atleti che fanno fare un balzo in avanti impensabile alla propria disciplina.

Jonah Lomu è stato uno di questi.

Il più grande giocatore di rugby di tutti i tempi, il simbolo di una nazione, la Nuova Zelanda, è morto ieri a soli 40 anni per un improvviso peggioramento delle condizioni di salute. Si perché Lomu era malato in pratica da sempre, e questo rende se possibile ancora più incredibile la sua vita e le sue imprese. Due trapianti di reni non sono serviti a curare la degenerazione nefrosica che lo aveva obbligato a ritirarsi ancora giovanissimo dall’attività agonistica.

Ai massimi livelli è durato 4 o 5 anni, eppure ha riscritto la storia di questo nobile sport, gli ha ridato slancio, lo ha portato nell’era moderna. Rischiava di scomparire il rugby, fortezza Bastiani del dilettantismo quando tutto attorno oramai odorava di dollari. Stava nascendo una lega alternativa che puntava al professionismo, con squadre formate da 13 elementi invece dei canonici 15, che a suon di contratti milionari avrebbe fatto in pratica venire alla luce una nuova disciplina affondando la più antica. Poi sulla Terra arrivò Jonah Lomu, e quando diciannovenne nel 1995 gli esperti lo hanno visto correre sui prati verdi della Coppa del Mondo sudafricana, hanno subito capito che nulla sarebbe stato come prima. 118 chilogrammi distribuiti in 196 centimetri di altezza, un armadio capace però di correre i 100 metri in 10 secondi e rotti, incredibile. Una massa di muscoli che una volta lanciata diventava letteralmente inarrestabile.

Solo l’incredibile Sud Africa post Apartheid poteva fermarlo: un’intera nazione, una storia impersonificata da Nelson Mandela, contro un uomo, il più forte rugbista di tutti i tempi. In finale la Nuova Zelanda perse contro la voglia di rivalsa della “nazione arcobaleno” secondo la felice definizione dell’arcivescovo anglicano Desmond Tutu.

L’impresa della squadra che per la prima volta faceva giocare insieme bianchi e neri (anche se il coloured era uno soltanto, Chester Williams) è stata talmente enorme da meritare la sceneggiatura e la regia di un film, lo splendido Invictus di Clint Eastwood. Ma gli occhi del mondo e degli sponsor erano tutti per questo ragazzone di origine tongana, figlio di un pastore metodista e di una madre che spaventata dalla violenza di strada aveva iscritto il figlio al Wesley College di Auckland. Qui Siona Tali, questo il nome di battesimo, diventa Jonah, Giona. E come il profeta anche Lomu avrà un ostacolo da superare, una balena da cui fuggire: i suoi reni che attaccati da una rara sindrome iniziano a farlo penare fin da giovanissimo.

Dopo quel mondiale sudafricano (le sue 4 mete in semifinale contro l’Inghilterra rimangono fra i momenti più alti di questo sport) il magnate televisivo Rupert Murdoch decide di investire circa 700 milioni di dollari per rilanciare il rugby, creando la Three Nations che avrebbe visto sfidarsi per i prossimi 10 anni in un torneo a loro riservato le squadre più forti: Sud Africa, Australia e appunto Nuova Zelanda.

Quel fiume di denaro fu la salvezza del rugby, e il suo balzo in avanti globale, che lo hanno portato oggi ad essere attività con fans e appassionati ovunque.

Ma Jonah è già malato, si sente sempre stanco ed in uno sport dove la potenza e la resistenza sono decisive si tratta di una grave menomazione. Rallenta i ritmi, torna per il mondiale del 1999. A nulla servono i milioni di Adidas e di altri sponsor, la fama globale, la copertina del Time. L’eroe è malato. Prova a combattere. Quando nel 2003 il trapianto diventa inevitabile commuove il mondo la corsa di tifosi e appassionati a voler donare il proprio rene per aiutare questo gigante ferito. L’operazione riesce, Jonah prova a rientrare a livelli minori, ma la parabola è oramai discendente.

Nel 2013 si sottopone ad un nuovo trapianto perché il rene sostituito sta cedendo. Sembrava in discrete condizioni, poi ieri la crisi e la morte improvvisa. Sfiorò anche l’Italia, premiato nel 2004 nel salone d’onore del Coni a Roma. Quando poi nel 2005 con gli scozzesi del Cardiff, sua nuova squadra, venne a giocare a Calvisano in quella che [ una sorta di Champions League del rugby, lo stadio del piccolo comune bresciano non riusciva a contenere l’entusiasmo dei fan.

La sua lezione migliore rimane il contributo dato al mondo davanti al male. Una malattia interminabile, che ne ha segnato i ritmi della vita, fra terapie, infinite sedute di dialisi tre volte la settimana, i pubblici discorsi ovunque nel mondo per dare speranza ai malati come lui. Un gigante sorridente e timido, testimonial ideale per ogni campagna. Vissuto il tempo di un soffio, il suo esempio di vita sopravviverà e sarà la sua eredità migliore.

Foto di Global Sports Forum via Flickr | Licenza CC BY-ND 2.0