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Dopo Parigi, la Francia deve saper cambiare

 Dopo gli attentati di Parigi di venerdì 13 novembre, l’Europa e i paesi occidentali si sono ritrovati di fronte a una rinnovata necessità di rispondere, sul piano politico prima ancora che militare, a violenze che, a distanza di pochi mesi dalla strage di Charlie Hebdo, ha nuovamente colpito la Francia, uno dei simboli della società europea.

Se da un punto di vista globale le prime risposte sono arrivate dal G20 che si è tenuto domenica e lunedì ad Antalya, in Turchia, nel quale Stati Uniti e Russia hanno concordato sulla necessità di interventi congiunti, la capacità della Francia e dell’Europa di ricompattarsi e di immaginare una nuova strategia deve fare i conti innanzitutto con le proprie contraddizioni interne.

All’inizio della settimana il presidente francese, François Hollande, ha annunciato al Parlamento francese riunito in sessione plenaria che le azioni di venerdì notte sono da considerare «un atto bellico» e che di conseguenza è la Francia stessa a essere in stato di guerra. Per Riccardo Pennisi, dell’Aspen Institute Italia, «Hollande ha omesso un particolare, e cioè che la Francia è già in guerra da tempo, è impegnata in moltissimi fronti sia in Medio oriente sia in nord Africa, dal Mali alla Libia fino all’Iraq e alla Siria, e il fatto che il presidente adesso dica alla cittadinanza e all’opinione pubblica francese che il paese è in guerra in realtà è una dichiarazione che avrebbe dovuto essere fatta in precedenza».

Siamo di fronte a un Hollande diverso rispetto a quello che abbiamo conosciuto finora?

«Non troppo. Hollande, con le sue dichiarazioni, ha cercato di ricompattare la politica intorno a sé. Diversamente da quanto accaduto con gli attentati di Charlie Hebdo, però, sia Marine Le Pen, sia Nicolas Sarkozy, hanno criticato l’operato del presidente sia in politica internazionale sia per quanto riguarda il fronte interno della sicurezza. Nonostante questo, il presidente Hollande ha cercato di trascinare tutta la società francese, tutta la cittadinanza, verso un’unità sociale e politica più forte in favore dei provvedimenti che lui e il governo prenderanno in questi giorni».

Queste parole di Hollande innescano il meccanismo dell’Articolo quinto del trattato Nato, ovvero il fatto che gli altri paesi Nato dovranno seguire la Francia nelle sue azioni?

«Non è automatico che l’articolo quinto del trattato Nato scatti e diventi operativo, anche se la risposta europea è stata molto simile a quella che sarebbe scaturita dall’attivazione dei parametri Nato. Andando più in profondità, la volontà del presidente francese è quella di creare un fronte internazionale che comprenda anche la Russia e di cui la Francia dovrebbe essere il simbolo e l’agente unificatore. Infatti, tra le conseguenze principali del discorso di Hollande c’è un cambio di strategia molto evidente per quanto riguarda l’area mediorientale. Prima d’ora la Francia in Siria considerava una priorità non solo combattere contro il gruppo Stato islamico, ma anche causare la dipartita politica del presidente Assad, visto forse come ancor più importante. Adesso, anche per cercare l’appoggio della Russia in previsione di una risoluzione Onu che la Francia vorrebbe presentare e dietro la quale cerca la massima unità, il presidente francese sembra avere modificato l’ordine delle sue priorità mettendo al primo posto la distruzione della guerriglia del gruppo Stato islamico, e solo dopo la cacciata del dittatore Assad».

Sembra una posizione coerente con l’avanzata russa anche sul piano militare oltre che diplomatico.

«La Francia ha spesso avuto posizioni lontane dalla Russia. Anche a settembre, durante un dibattito presso le Nazioni Unite, aveva criticato fortemente la Russia, visto che Putin era stato contrario alle posizioni e agli interventi francesi degli ultimi anni. Questo aggiornamento della posizione di Parigi va letto come l’occasione per avvicinarsi alla posizione russa non solo per motivi tattici, ma anche per via della forza strategica, militare e di intelligence che la Russia può dispiegare nell’area e che la Francia da sola non potrebbe permettersi e che, per quanto riguarda la situazione attuale, nemmeno gli Stati Uniti sono in grado di garantire».

Questi attentati nascono per gran parte all’interno della società francese. Quanto ha influito la politica d’oltralpe degli ultimi dieci anni nei confronti delle banlieues?

«C’è un grande problema nella società francese che va valutato in una prospettiva di decenni, ed è la situazione sociale ed economica delle sue grandi periferie. L’economia e la società francese sono piuttosto proiettati a livello internazionale per quanto riguarda i centri delle grandi città, ma le sue periferie si sentono, e probabilmente sono, socialmente ed economicamente sempre più marginalizzate e abbandonate. Hollande durante il suo discorso ha definito la Siria la più grande fabbrica di terroristi al mondo, ma se guardiamo i numeri vediamo che nel solo 2014 ben 1.200 persone dalla Francia hanno abbandonato il paese per entrare nell’Isis; insomma, se c’è una fabbrica internazionale di terroristi sicuramente la Francia ne possiede delle quote importanti».

È un problema legato alle seconde generazioni o riguarda il tema dell’immigrazione in senso più ampio?

«Va detto che la prima generazione di immigrati che si è trovata a vivere nella società francese non avrebbe fatto una scelta del genere, queste persone erano molto impegnate nella ricerca dell’integrazione e di un lavoro attraverso il quale costruire la propria accettazione sociale. Qui invece siamo di fronte a una seconda o terza generazione, soprattutto di origine musulmana, che nonostante il grande impegno dei suoi genitori non ha trovato una risposta soddisfacente nelle attuali condizioni socioeconomiche che il paese gli offre. Una parte di queste persone, una parte piccola ma significativa, non vede nulla di buono in prospettiva, e di fronte a un futuro piuttosto misero l’opzione di aderire a un gruppo terrorista internazionale e di rivoltarsi contro il loro stesso paese è un’ipotesi invitante. Come abbiamo visto, sia in questo caso ma anche negli attentati precedenti di Charlie Hebdo e anche in quelli sventati dagli interventi della polizia, oppure nel caso di Mohammed Merah del 2012, la nazionalità di questi terroristi è soprattutto francese, e ancor più nello specifico i terroristi sono concentrati proprio nelle periferie delle grandi città e in particolare di Parigi».

Abbiamo sempre guardato alla Francia come a un modello di integrazione, un modello che di fronte a questi avvenimenti sembra vacillare. Possiamo pensare che quello che abbiamo conosciuto come “modello francese” non sarà più lo stesso dopo questi eventi?

«Il modello francese in teoria è basato su principi molto condivisibili, come per esempio la laicità e il rifiuto di categorizzare le persone secondo la loro religione o la loro origine nazionale o la loro visione politica, ma nella pratica le cose sono andate molto diversamente. Mentre si diceva che non ci sarebbe stata nessuna discriminazione, che tutti erano uguali nello stato laico francese, nella Republique, nella pratica le discriminazioni ci sono state. Per capire la portata del fallimento, basta pensare che lo stesso presidente del consiglio francese, Manuel Valls, l’anno scorso ha dichiarato che in molte periferie francesi non c’è lo Stato, non c’è la giustizia: ha dipinto uno scenario che potrebbe fare pensare ad alcune zone del Sudamerica o a certe zone del sud Italia dominate dalla mafia, ma riferito alle periferie di alcune tra le più importanti città d’Europa».

Stiamo parlando di un sistema riformabile?

«A parole tutti si impegnano a voler riformare questo modello, ma nella realtà pratica il problema non è mai stato affrontato, perché nessun governo finora ha mai voluto stanziare le risorse e le energie necessarie a cambiare una situazione del genere. Si tratta veramente di zone in cui in Francia lo Stato, la presenza delle istituzioni e delle regole che conosciamo, tipiche della società francese, sono percepite come molto lontane».

Foto via Pixabay