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Cosmo: il design incontra le migrazioni

Intorno al fenomeno delle migrazioni si spendono parole, intenzioni e progetti. Ai cambiamenti si può reagire resistendo e contrastando lo spostamento che le persone in fuga da situazioni difficili compiono; due designer dello studio Lupo & Burtscher di Bolzano, invece, hanno pensato che chi arriva abbia delle competenze che possono essere condivise e valorizzate. È nata così l’idea di Cosmo, un marchio che distribuisce oggetti realizzati attraverso la collaborazione tra artigiani in fuga dal loro paese e designer europei. Una risposta alla necessità di fare qualcosa rispetto a quello che succede nel mondo, come ci racconta Daniele Lupo.

Cosa fare per aiutare i migranti che scappano da situazioni di difficoltà non sembra essere una domanda che nasce spontanea per un designer; voi come avete cominciato a interrogarvi su questo tema?

«Abbiamo avviato un’analisi sulle possibili risposte che il design può dare rispetto a un fenomeno di stretta attualità e che viviamo tutti i giorni come la migrazione. In passato avevamo già partecipato ad alcuni progetti di cooperazione internazionale e la cosa che ci aveva lasciato un po’ perplessi era quella di lavorare in paesi lontani e realizzare una serie di oggetti che poi venivano distribuiti attraverso i canali della cooperazione nelle botteghe solidali. Abbiamo voluto valutare criticamente questo approccio e rivisitarlo considerando il potenziale delle persone che attualmente si muovono in Europa, persone che fuggono ma con un passato di quotidianità e anche di capacità e lavoro. Con questo progetto vogliamo coinvolgere i richiedenti asilo in Italia per mettere a frutto le competenze che portano con loro in Europa».

Lo studio è a Bolzano, ma come mai per far partire questa prima esperienza di Cosmo siete venuti a Torino?

«Alcuni mesi fa il Centro Piemontese di Studi Africani a Torino stava lavorando all’Ottobre Africano e ci ha chiesto di parlare di questo progetto, poi la cosa si è evoluta e ci hanno dato la possibilità di presentare una prima collezione durante Operae. Abbiamo dovuto accelerare un po’ i tempi, ma il progetto era nelle nostre teste da un bel po’ e così siamo riusciti a dargli una forma concreta. Per Operae abbiamo avviato una prima collaborazione con un artigiano richiedente asilo in Italia che si chiama Bakary Darboe. In Gambia aveva il suo laboratorio, ma l’ha dovuto lasciare nel 2014 per fuggire dal suo paese attraversando l’Africa occidentale, la Libia e il Mediterraneo. Ora vive da circa un anno a Torino dove ha fatto richiesta di asilo politico e con noi ha vissuto il primo giorno di lavoro in Europa. La collaborazione con lo studio è iniziata con un nostro incipit alla progettazione ed è stato molto interessante: abbiamo condiviso le conoscenze sulla tecnica della lavorazione del legno, poi abbiamo cercato di discutere insieme a lui e capire qual è la cultura materiale e la tradizione del suo paese di origine. Attraverso questi scambi è nata la collezione che abbiamo presentato a Operae».

Dal punto di vista professionale è stato uno scambio interessante per entrambi?

«È stato molto interessante conoscere le tecniche di lavorazione, gli strumenti e anche la cultura formale di una persona proveniente da un paese culturalmente lontano. È stato importante anche perché il progetto sta contribuendo a dare delle possibilità di inserimento lavorativo a Bakary presso alcuni artigiani e falegnami; speriamo che il suo destino non lo vedrà con un lavoro improvvisato in Europa, ma con il lavoro che sa di fatto fare».

Pensa che questi oggetti, frutto di questa collaborazione, rappresentino una sintesi efficace dell’incontro tra queste due culture?

«Il progetto nasce proprio con questo intento, vuole essere una buona pratica per considerare la migrazione come un potenziale e non come un dramma o un problema, come invece viene sempre definito. Secondo noi il potenziale è molto forte e interessante. Bisogna guardare in faccia il presente e pensare al futuro che arriverà e che non sarà più così regionale, ma meticciato da tante diverse culture.

Quello che vogliamo fare ora è distribuire questi oggetti costruendo dei canali di vendita e di produzione attraverso una filiera che funzioni e che coinvolga Bakary, perché sottolineo che gli oggetti vengono ordinati direttamente a Bakary e non a un falegname qualsiasi».