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Luciano Gallino, maestro fuori dagli schemi

Avevo ventidue anni quando l’ho conosciuto, E lui quaranta. Era un giovane professore con l’incarico di tenere un corso complementare di sociologia in anni in cui la sociologia faceva faticosamente il suo ingresso nell’Università italiana dopo gli anni oscuri del fascismo che non aveva tollerato l’esistenza di una scienza della società fondata sull’osservazione empirica delle relazioni sociali e dunque critica nei suoi fondamenti epistemologici.

Per me che in quegli anni cercavo, senza trovare, strumenti che mi aiutassero a capire la fase turbolenta che stavamo vivendo e il senso del nostro ribellarci all’ordine costituito, le lezioni di quel professore che si aggirava, allampanato e silenzioso, nei corridoi di Palazzo Campana, uno dei luoghi storici della rivolta studentesca, furono un’insperata boccata di ossigeno. Parlava lentamente, con tono gutturale, rischiarandosi spesso la voce: non faceva nulla per apparire un comunicatore accattivante. Ma le sue parole e i suoi schemi alla lavagna raccontavano la storia del nostro paese mostrando le interazioni tra politica, economia e società, mettendo in evidenza la trama visibile e invisibile delle differenze territoriali, disegnando la struttura delle diseguaglianze sociali.

Si aprì così per me una porta che non si è più chiusa e che ha dato senso alla mia vita professionale ma anche al mio impegno civile. In quegli anni Gallino non fu un maestro facile: ci spiazzava con le sue osservazioni pungenti, a volte con un solo alzar di sopracciglio, ci criticava aspramente tutte le volte che l’ideologia sopravanzava la ricerca attenta del dato, ci chiedeva in maniera stringente ragione delle nostre scelte di ricerca.

Si muoveva con disinvoltura tra la ricerca teorica, che si concretizzò alla fine degli anni settanta nel monumentale Dizionario di Sociologia, su cui hanno studiato intere generazioni di studenti e ricercatori, e la ricerca empirica che in quegli anni – anche dopo la fine dell’esperienza Olivetti – si concentrava sul lavoro di fabbrica, sull’organizzazione aziendale, sulle prime esperienze di informatizzazione dei processi organizzativi. Alcuni di noi ebbero, grazie a lui, la fortuna di conoscere dall’interno le grandi aziende e di capire quanto complesso fosse, al di là delle semplificazioni ideologiche, il rapporto tra operai, tecnici, management e sindacato. Quell’esperienza mi consentì, qualche tempo dopo, di passare alcuni anni nell’ufficio studi della Cgil sufficientemente attrezzata per cogliere i segnali della crisi del sindacato come organizzazione. Una crisi che si sarebbe manifestata in anni successivi in tutta la sua gravità.

A partire dagli anni novanta, dopo il mio ritorno all’Università, mi è parso di cogliere che Gallino agisse su due registri non sempre coerenti. Sul piano accademico, dopo aver fondato e fatto crescere uno dei primi Istituti di Sociologia in Italia e dopo aver dato vita al primo centro di informatica per le scienze umane, è cominciata per lui una fase di consolidamento, presto turbata da un succedersi di interventi pseudoriformatori che non hanno migliorato l’Università italiana ma hanno reso più opaco il suo funzionamento. In qualcuno dei passaggi di questa confusa vicenda ci siamo trovati su fronti opposti. Ripensando ora a quei dissensi mi pare di poter dire che abbiamo perso tutti. Quella che poteva forse diventare una scuola è diventata una diaspora che ha visto gli allievi di Gallino andare per strade diverse. E, a mio sommesso parere, la sua influenza accademica non ne è stata potenziata quanto sarebbe stato necessario.

Ben diversamente è andata la storia intellettuale di Gallino, che è progressivamente diventata una storia pubblica. Attraverso i suoi interventi giornalistici e i suoi numerosi libri usciti con regolarità a partire dal 1998 fino all’ultimo, uscito pochi mesi prima della sua scomparsa1, Luciano Gallino, sempre più consapevole degli effetti disastrosi che un’intensa globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia, letti e governate con un’impostazione neoliberista, avrebbero avuto sul tessuto sociale, ha cominciato a parlare al grande pubblico.

Con il consueto rigore accompagnato dalla consapevolezza che globalizzazione e finanziarizzazione stavano procedendo a ritmi serrati, Gallino è diventato progressivamente appassionato punto di riferimento di chi si è sentito orfano della politica, di chi ha dovuto toccare con mano le conseguenze delle politiche neoliberiste, di chi ha ripreso a cercare una strada capace di contrastare il “nuovo” che avanzava. Nell’assumere, sempre più consapevolmente, questo ruolo pubblico, Gallino è stato guidato dalla stella polare che ha accompagnato tutta la sua vicenda intellettuale: la dignità del lavoro come fondamento di una società decente, quella società che il capitalismo industriale, insieme alla democrazia rappresentativa, al welfare state e al riconoscimento giuridico e politico dell’azione collettiva dei lavoratori hanno reso possibile e migliorabile e che ora rischia di essere travolta.

Se mi resta il rammarico di non aver trovato il modo di ricucire uno strappo che ha separato le nostre storie accademiche, ora so che ciò che Gallino ha lasciato è ben di più di una coesa conventicola di professori e in tanti, chierici e non chierici, continueremo a cercare nel segno delle sue raccomandazioni metodologiche, dei valori che abbiamo condiviso e del suo sopracciglio alzato.


1 Se tre milioni vi sembran pochi. Sui modi per combattere la disoccupazione, Torino, Einaudi, 1998; Globalizzazione e disuguaglianze, Roma-Bari, Laterza, 2000; Il costo umano della flessibilità, Roma-Bari, Laterza, 2001; L’impresa responsabile. Un’intervista su Adriano Olivetti, Torino, Edizioni di Comunità, 2001;La scomparsa dell’Italia industriale, Torino, Einaudi, 2003; L’impresa irresponsabile, Torino, Einaudi, 2005; Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Roma-Bari, Laterza, 2007; Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l’economia, Torino, Einaudi, 2009; Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Torino, Einaudi, 2011; Il colpo di stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Torino, Einaudi; Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti, Torino Einaudi, 2015.

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