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L’ideologia antiabortista ha perso?

Il Ministero della Salute, nella sua ultima relazione sull’attuazione della legge 194/78, ha evidenziato come in Italia nel 2014, per la prima volta, ci siano state meno di centomila interruzioni volontarie di gravidanza. Il dato è positivo purché non sia paravento di un mondo sommerso di clandestinità per natura difficile da mappare. In questi giorni molti quotidiani sottolineano un altro dato riportato nella relazione, ovvero l’elevato numero di obiettori di coscienza. Il 70 % del totale nel caso dei ginecologi, il 50 nel caso degli anestesisti.

Del diritto di decidere del proprio corpo si sta discutendo anche in Irlanda, dove migliaia di donne hanno manifestato attraverso Twitter per l’abrogazione di un emendamento della costituzione che fa dell’aborto un reato, comunicando direttamente al primo ministro Enda Kerry aggiornamenti sul proprio ciclo mestruale.

Commentiamo queste notizie con Ilenya Goss, medico e docente di Etica e Storia della Medicina all’Università di Torino, componente della Commissione Bioetica della Tavola Valdese.

Come legge la diminuzione di interruzioni di gravidanza?

«La prima cosa che mi viene da dire è che il dato ci dimostra come siano ideologiche le campagne antiabortiste e gli attacchi alla legge 194, che vedevano nella legalizzazione un aumento esponenziale delle richieste. 37 anni di legge 194 ci portano ad avere oggi sotto gli occhi il dimezzamento delle interruzioni volontarie di gravidanza (ivg). Valutare questi dati, resta comunque complicato. Dal 1982 a oggi, per esempio, la composizione della popolazione italiana è cambiata, il 35 % di queste interruzioni riguarda donne non italiane. L’altro dato interessante è quello relativo alla pillola del giorno dopo, che nel tempo vide anch’essa una campagna ideologica che ne paventava l’aumento. Oggi sul totale sono circa 8000 richieste l’anno, da inserire all’interno del trend negativo».

Il dato sul tasso di abortività sembra collegato alle altissime percentuali di medici obiettori: è proprio così?

«Effettivamente una buona parte della relazione del Ministero è dedicata ai dati sull’obiezione, che impressionano. Ci siamo stabilizzati sul 70% di medici ginecologi obiettori: la distribuzione non è omogenea, a sud le percentuali aumentano e questo fa pensare che l’accessibilità al servizio e l’applicazione della 194 siano più in difficoltà. Ma la relazione sottolinea che le regioni dove c’è effettivamente una criticità sono l’Alto Adige e il Molise. Su tutto il resto del Paese questo alto numero di obiettori non comporterebbe una mancanza del servizio, secondo il Ministero. Personalmente non collegherei i due dati, almeno non in modo così netto. Certamente c’è da considerare la percentuale di aborti che segue vie non ufficiali per chi non può, non riesce o non vuole accedere al servizio: ma sono dati che sfuggono al calcolo netto, e questo è inquietante. Alcuni hanno commentato dicendo che se fosse possibile interrompere la gravidanza in cliniche private il numero di obiettori diminuirebbe drasticamente: non abbiamo un dato di controllo, ma se questo fosse vero certamente ci sarebbe da riflettere perché verrebbe gettata una luce inquietante sulla competenza e sulle motivazioni che inducono un professionista a diventare obiettore. Sicuramente l’obiezione va a gravare sul lavoro degli altri medici, anche se la relazione dice che i livelli non sono di criticità. Se aumentasse il numero degli obiettori potrebbero esserci dei disservizi o la mancata possibilità per una donna di accedere direttamente».

In Irlanda le donne hanno protestato per l’abrogazione di un emendamento che fa dell’aborto un reato: che ne pensa?

«Trovo simpatica e provocatoria questa protesta, ma soprattutto significativa. Si rivendica qualcosa che è stato votato nel 1983, che sancisce che una donna non ha il diritto di decidere di un’interruzione di gravidanza, poiché è ammesso soltanto l’aborto terapeutico, quando c’è pericolo di vita per la madre. La riflessione che nasce è un segnale di chiamata all’attenzione, soprattutto per chi è cresciuto in una società dove le battaglie erano state combattute da madri o nonne e dove abbiamo goduto ampiamente di diritti ed emancipazione. Troppe cose sono date per scontate, come se certi diritti fossero acquisiti ovunque e sempre. Colpisce che stiamo parlando dell’Irlanda, non un di paese dove una legge religiosa impone il suo diktat con violenza, ma un paese democratico, che cambia la propria costituzione con un referendum. Quello che racconta questa notizia è che il corpo della donna è visto, trattato e vissuto come un oggetto, che si può manipolare e sul quale si può decidere. Il diritto di vivere la propria vita, la propria fisicità, il proprio corpo appare negato».

È possibile trovare un collegamento tra la situazione in Italia e in Irlanda?

«Se in Italia, nella riduzione delle interruzioni di gravidanza, c’è una percentuale in aumento di sommerso, allora la situazione è grave. Se anche una sola donna è costretta a mettere a rischio la propria vita per seguire queste vie clandestine perché le viene negato un diritto, allora il fallimento è umano, civile e culturale. Con l’Irlanda vanno fatte le dovute distinzioni, ma la negazione del diritto rischia di essere la stessa».

Foto di Antonella Beccaria via Flickr | Licenza CC BY-SA 2.0