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La chiesa è «semper reformanda»

Quando papa Francesco nel centro del suo discorso ha pronunciato la frase «La chiesa è semper reformanda» mi son voltata indietro e gli sguardi di alcuni di noi si sono incontrati mentre le nostre bocche si aprivano ad un sorriso. Eravamo in una tribuna accanto alla navata centrale del Duomo di Firenze insieme al resto della delegazione ecumenica ed ai rappresentanti di altre comunità di fede della città, raccolti là per invito della CEI in occasione del Convegno ecclesiale sul tema del nuovo umanesimo, e lo sguardo d’intesa l’avevo scambiato con qualcuno degli amici presenti.

Certo l’intero apparato si era organizzato per le grandi occasioni, c’erano dirette televisive in corso dalle prime ore del giorno; certo, i passaggi fra ali di folla osannanti; certo, la cornice sontuosa, le musiche e i cori dagli accenti trionfali; certo, l’entrata in Duomo fra gli applausi, tutto questo faceva parte di una liturgia collaudata che si ripete dai tempi di papa Wojtyla, eppure questo papa è riuscito a dire parole evangeliche che hanno attraversato l’apparato e a richiamare la sua chiesa, in primo luogo la sua chiesa, a conversione.

L’«Ecce homo» che campeggia nel grande affresco sotto la cupola della Cattedrale ha offerto l’incipit al discorso che aveva al centro un unico punto, che il nuovo umanesimo sia ispirato e modellato su Cristo. Ai vescovi ai quali ha chiesto di essere semplicemente «pastori» ha detto: «Come pastori siate non predicatori di complesse dottrine, ma annunciatori di Cristo, morto e risorto per noi. Puntate all’essenziale, al kerygma. Non c’è nulla di più solido, profondo e sicuro di questo annuncio. Ma sia tutto il popolo di Dio ad annunciare il Vangelo, popolo e pastori, intendo». Ed ha predicato Cristo, papa Francesco, lo ha fatto attraverso citazioni di alcuni testi chiave, il primo è l’inno cristolgico nella lettera paolina ai Filippesi da cui ha tratto l’esortazione all’umiltà e al disinteresse. Poi ha richiamato le beatitudini e ha esortato a non «essere ossessionati dal potere, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa». Pena il disorientamento e la perdita di senso.

Un’autocitazione e il riferimento ad un’altra parabola evangelica, ha dato il senso a questa centralità quando ha detto: «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti» (Evangelii gaudium, 49). L’altro testo presente per tutto il discorso in filigrana e, alla fine citato apertamente, è stato quello della parabola del giudizio di Matteo 25, 31ss in cui i destini opposti ed alternativi nel giudizio finale sono presentati da Gesù sulla base del rispondere o meno al bisogno di pane, cura, compagnia, accoglienza verso i veri e unici rappresentanti di Cristo: i poveri, gli stranieri, gli ammalati, i carcerati.

«La riforma della Chiesa – e la Chiesa è semper reformanda – (…) significa innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi condurre dallo Spirito». Così ha detto davvero.

Fra poco saranno 500 anni dalla Riforma e sentire queste parole, pur in una cornice sfarzosa, con una platea ancora in gran parte formata da anziani uomini celibi vestiti di nero, mi ha comunque comunicato speranza. Sentire un papa che dice «La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: si chiama Gesù Cristo», è musica per le mie orecchie. Lo Spirito soffia davvero dove vuole e quando soffia varca ogni confine, si insinua sotto le fessure delle finestre chiuse e rinfresca l’aria dovunque arrivi. Non è forse un caso che le tre testimonianze che hanno preceduto il discorso del papa erano di una ragazza italiana e di un giovane prete albanese, entrambi non battezzati da bambini, che avevano incontrato la fede da adulti, e di una coppia in seconde nozze che ha dato voce al suo travaglio simile a quello di tante altre coppie. Certo, i coniugi di quest’ultima avevano ottenuto l’annullamento, diverso sarebbe stato un divorzio, ma in tanti in quell’uditorio hanno compreso bene che rimarcare questa diversità è pura ipocrisia.

Per questo molti di noi nella tribuna A, particolarmente in ambito cristiano, sono andati via contenti e – sorpresa – proprio fuori nella piazza, abbiamo incontrato tanti amici e amiche cattoliche che hanno resistito a lunghi inverni di immobilismo ideologico ed ecumenico e che ora hanno, come noi, ritrovato il sorriso. 

Foto “Duomo di Firenze da Palazzo Vecchio” di Ferdinando CastiglioneOpera propria. Con licenza CC BY-SA 4.0 tramite Wikimedia Commons.