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La retorica del Bene: il caso di via Asti

Ci sono delle storie che rischiano di rimanere nascoste tra le maglie dell’informazione e delle innumerevoli tragedie che accadono quotidianamente nel nostro paese e nei mari che circondano la nostra penisola. Ci sono categorie di “ultimi” che sono accolti e altri di cui nessuno parla, se non associandoli alle ruspe, e che nell’immaginario collettivo sono legate a pregiudizi di varia natura: il furto di bambini, la delinquenza e la scarsa voglia di lavorare: i Rom.

Il 1 Novembre 2015, 26 famiglie che si trovavano sotto sgombero nel campo di Lungo Stura e sotto sfratto nei social housing di Corso Vigevano e via Traves, hanno deciso di occupare a scopo abitativo una piccola porzione della ex caserma “La Marmora” di proprietà della Cassa Depositi e Prestiti ed oggetto di interessi speculativi, già occupata in aprile da Terra del Fuoco, una delle associazioni parte del progetto “La città possibile”, ed oggi gestita da un comitato allargato, con la promessa di destinarla ad uso sociale. L’ha occupata perché il posto dove abitavano non c’è più. Erano baracche lungo il fiume, in un posto senza acqua né luce, tanta immondizia e topi. Non un bel posto, ma l’unico che potessero permettersi. 
Molti avevano creduto nelle promesse di una casa del comune di Torino. Chi  l’ha ora è sotto sfratto, perché non può pagare l’affitto. Chi non è entrato nel progetto ha conosciuto solo le ruspe.

Se vi alzate quando è ancora buio, vedrete le persone che abitavano quelle baracche cercare nei cassonetti qualcosa da vendere il sabato al Balon. Altri raccolgono metalli: sono l’ultimo anello di una catena di riciclo dove gli ultimi lavorano molto per il profitto di pochi. Qualche donna fa la badante nelle case. Chi guarda gli abitanti della ex baraccopoli con sospetto, chi li osserva mentre cercano nei cassonetti ignorando che quel gesto così incomprensibile è per loro forse un lavoro, chi guarda dimentica che gli occupanti di 26 stanze di via Asti sono persone sfrattate, senza casa, con lavori precari, vede solo rom. Ciò basta a privarli della loro umanità.

Le persone che oggi vivono in via Asti sono immigrate dalla Romania. Lì vivevano in case, non sono “nomadi”, ma con il passaggio ad un’economia di mercato dopo il 1989 ed a causa della proliferazione di rigurgiti razzisti mai sopiti, sono stati/e le prime a perdere il lavoro e la possibilità di sopravvivere in una società sempre più marcata da disuguaglianze. In Italia, però, non hanno trovato un futuro migliore, ma solo “campi”, sfruttamento e razzismo.

Alcuni mesi la caserma di via Asti era già stata oggetto di un’occupazione. In seguito alla sottoscrizione di una convenzione tra Prefettura e Città di Torino – mediante cui sono stati riallocati i finanziamenti destinati alla cd. “Emergenza Nomadi” voluta nel 2008 dall’allora Ministro degli Interni Roberto Maroni, poi dichiarata illegittima dal Consiglio di Stato -, nel 2013 la Città di Torino aveva pubblicato un bando di gara ed un capitolato speciale d’appalto “per la gestione di iniziative a favore della popolazione rom”(n. 84/2013), per cui sono stati stanziati 5.193.167,26 Euro.

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Tale appalto, suddiviso in tre lotti, è stato poi affidato all’unica cordata che ha partecipato alla gara, composta da sei associazioni e cooperative: Valdocco, Terra del Fuoco, AIZO, Stranaidea, Liberitutti e Croce Rossa Italiana. Tale cordata si è aggiudicata 4.428.116,00 euro presentando il progetto “La città possibile – iniziative a favore della popolazione ROM”, avente lo scopo dichiarato di “realizzare percorsi efficaci di integrazione e di cittadinanza per ca. 1300 persone di etnia ROM che abitano oggi nelle aree sosta autorizzate e non autorizzate della Città di Torino” (ed in particolare i campi di Lungo Stura Lazio, Corso Tazzoli, via Germagnano, Strada Aeroporto) nel periodo compreso tra il novembre 2013 ed il dicembre 2015.

Nel caso del “campo rom” di Lungo Stura Lazio, una delle baraccopoli più grandi d’Europa, i beneficiari previsti dal progetto erano fin dall’origine 600, a fronte di una presenza nel 2013 di oltre mille abitanti (adulti e minori), arrivati dalla Romania a partire dal 2002, in larga parte tutt’ora sprovvisti di documenti e senza residenza e dunque esclusi da servizi fondamentali, in primis la salute. Per i beneficiari venivano previste le seguenti azioni: “1) Accompagnamento sociale per favorire l’inclusione e percorsi di formazione/lavoro; 2) Rimpatri in collaborazione con associazioni in loco; 3) Allocazioni urbane ed extra urbane; 4) Percorsi di inclusione abitativa; 5) Raccolta rifiuti; 6) Accompagnamento sociale e costi generali in fase di gestione e sistemazione transitoria”. Tali azioni si sarebbero concretizzate attraverso la sottoscrizione di “patti di emersione” individualizzati, tramite cui una parte degli abitanti della baraccopoli, selezionata dalle associazioni e cooperative, si impegnava a distruggere la proprie baracca ed ottemperare altri doveri, in cambio di una tra le seguenti alternative, a seconda della propria “meritevolezza”: “Inclusione abitativa in alloggio su mercato privato”, “Housing sociale temporaneo”, “Alloggio di supporto fragilità”, “Co Housing sperimentale”, “Autorecupero” o “Rimpatri volontari assistiti in Romania”.

Oggi, ad inizio Novembre 2015, la realtà del progetto “La città possibile” è la seguente.

– Una piccola parte considerata “meritevole” degli oltre mille abitanti della baraccopoli ha visto distrutta la propria baracca in cambio della ri-collocazione in case o housing sociale scelte da associazioni e cooperative, in larga parte di proprietà di privati. Le persone ri-collocate in tali sistemazioni si sono fin da subito fatte carico degli affitti, per i primi mesi calmierati, ma progressivamente a prezzo di mercato. Nell’impossibilità di sostenere tali affitti a privati, le persone sono state sfrattate o si trovano sotto sfratto, senza alternativa abitativa.

– Un’altra parte considerata “meno meritevole” degli oltre mille abitanti della baraccopoli, è stata rimpatriata “volontariamente” in Romania, con la promessa di ricevere 300 euro al mese per sei mesi. Questi soldi, però, non sono stati ricevuti o lo sono stati solo in parte. Impossibilitati a poter ricostruire un progetto di vita dopo anni di assenza, e senza nessuna prospettiva di stabilità economica, molte persone sono rientrate a Torino, dove però la loro baracca era stata distrutta.

– La parte più consistente degli oltre mille abitanti della baraccopoli è stata considerata “non meritevole” ed è dunque stata oggetto di sgombero forzato senza alternativa abitativa. Le ruspe hanno abbattuto, senza preavviso, ciò che per loro ha rappresentato una casa per oltre un decennio.

– Non esiste una rendicontazione pubblica del progetto che chiarisca la ripartizione delle spese, né un organismo terzo con il compito di monitorarne l’implementazione.

I 26 nuclei che oggi abitano in via Asti sono composti da donne, uomini e bambini con cittadinanza rumena. Molti vivono a Torino da tredici anni. Non avendo mai avuto la possibilità di lavorare nell’economia formale, né di avere una casa, la quasi totalità è sprovvista di documenti per il soggiorno regolare sul territorio, non possiedono la residenza e si vedono quindi negati servizi fondamentali, come il medico di base. Dal punto di vista lavorativo, le attività vengono svolte nell’economia informale, sottocosto e nell’assenza di qualunque diritto e tutela, e sono principalmente la raccolta e la rivendita di metalli, la rivendita di oggetti usati, i servizi di cura. Sono presenti una trentina di minori, molti dei quali in età scolare ed iscritti presso scuole della Circoscrizione 6. Sono presenti numerose persone anziane e malate.

Sabato sera un bella cena, organizzata dagli occupanti e da tutti coloro che hanno deciso di portare la loro solidarietà, è stata suggellata da un lungo applauso: in qualche modo si era riusciti a fare arrivare la corrente elettrica. Resta il problema del riscaldamento e quello della convivenza a Torino. Lo stesso stesso problema che affligge il resto del nostro paese: la paura del diverso, la guerra tra gli ultimi, un sistema economico che si fonda sulla separazione, sulla distruzione dei diritti e sulla difesa del privilegio.