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La Costituzione in una mano, la bomba nell’altra

In Yemen nessuno è al sicuro. Nemmeno i civili, nemmeno gli operatori umanitari. Da quando la coalizione guidata dall’Arabia Saudita ha cominciato a bombardare il territorio per colpire i ribelli sciiti houti, a marzo 2015, ci sono stati circa 4000 i morti. Il 28 ottobre le bombe hanno colpito un ospedale di Medici Senza Frontiere.

«Ci sono attacchi contro abitazioni, quartieri residenziali, strutture civili, campi degli sfollati e ospedali – dice Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International – Il bilancio delle vittime è pesantissimo, abbiamo stime di 4mila morti, 10% purtroppo sono bambini. Una situazione di catastrofe che sembra senza fine, perché la maggior parte della popolazione di 21 milioni di persone dipende da aiuti umanitari: le forniture di corrente, gasolio, acqua e cibo sono incostanti se non, in alcuni casi, bloccate». Dalle indagini svolte da Amnesty è emerso che molti attacchi sono appositamente contro obiettivi civili: «sono stati rinvenuti resti di una bomba a grappolo di fabbricazione brasiliana scagliata contro un quartiere residenziale nel governatorato di Sadaa: il primo obiettivo militare nei dintorni distava 10 km quindi nessun errore di traiettoria, ma una volontà deliberata».

A proposito delle bombe utilizzate nel conflitto, da mesi la Rete Disarmo, Amnesty International e l’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e sulle Politiche di Difesa e Sicurezza (Opal) chiedono al Governo di sospendere l’invio di componenti italiani e sistemi d’arma alla coalizione saudita, che li utilizza, come abbiamo detto, anche per commettere possibili crimini di guerra. «La documentazione che arriva dallo Yemen mostra chiaramente diverse bombe inesplose con la sigla che riporta alla fabbricazione italiana – dice Giorgio Beretta dell’Opal – Trovati questi elementi ci siamo mobilitati per comprendere meglio e abbiamo visto come dalla documentazione della Presidenza del Consiglio degli anni scorsi emergano forniture abbastanza ingenti di bombe per l’Arabia Saudita, dove la coalizione svolge un intervento senza nessuna autorizzazione dell’Onu, senza nessun voto o legittimazione. Siamo in contrasto dunque con i principi alla base della legge 185/90 che vieta l’esportazione di armamenti a paesi in conflitto e a paesi che operano politiche in contrasto con l’articolo 11 della Costituzione».

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Fonte Opal

Nuovi armamenti sono partiti pochi giorni fa dall’aeroporto di Cagliari. «Dalle fotografie e dai filmati sembra un ingente quantitativo, ma nessuno dal Ministero degli esteri ha ancora risposto, nonostante siano state fatte diverse interrogazioni parlamentari che abbiamo richiesto – continua Beretta –. Secondo noi è assolutamente fuori da ogni logica che non si risponda nemmeno alle interrogazioni e che si continuino a inviare bombe all’Arabia Saudita. Dobbiamo iniziare a pensare a qualche forma di esposto secondo altre forme legali, benché ci sembri assurda questa situazione. La legge dice che l’Italia non deve esportare armi a paesi dove ci sono violazioni dei diritti umani, come in questo caso. Perché continua a farlo?».

Il conflitto in Yemen è lontano da noi. Non sta portando rifugiati sulle nostre coste. Tra qualche anno e ci chiederemo da dove arrivano questi nuovi migranti e come mai scappano. Ma in questo caso il coinvolgimento italiano ci deve obbligare ad essere coerenti; uscire dalle dinamiche economiche, però, è quanto mai complicato, se si parla di armamenti: «il ragionamento economico è difficile da arginare. Anche l’Unione Europea in diversi documenti dice che i nostri ministri degli esteri sono diventati dei promotori dell’esportazioni delle proprie aziende militari – sostiene Beretta – la logica commerciale è diventata parte della politica estera. Non è un caso che Uama, che è l’agenzia che dovrebbe regolamentare le esportazioni e che dovrebbe essere indipendente, è stata messa all’interno del dicastero degli esteri nella direzione che riguarda il sistema “Promozione sistema paese”: come se esportare bombe fosse questo. Qui comprendiamo la logica, contraria alla legge 185/90. Non si vogliono disturbare le fabbriche di armi, ma anzi le si incentiva».

«L’Italia mostra un doppio volto in tema di diritti umani – conclude Riccardo Noury, portavoce di Amnesty – promuove iniziative a livello internazionale (si pensi al trattato internazionale sul commercio di armi che è in vigore e che ha visto l’Italia protagonista di questa campagna), poi però nella vita di tutti i giorni questi impegni internazionali vengono disattesi per il vantaggio economico di continuare a essere un grande fornitore di armi: ma questa è una strategia irresponsabile».

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