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Gli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) sono ancora attivi

«Dovete fa passà a legge al Senato pe falli chiude questi posti. Ce dovete mette a lavorà. Io nun so pericoloso, nun so pericoloso!»: una, fra le tante, troppe grida di dolore che irrompono dall’interno delle ottocentesche mura di uno dei sei Ospedali pschiatrici giudiziari (Opg) ancora attivi in Italia. Così come travolgono le immagini sconvolgenti di una bottiglia di plastica riempita d’acqua, messa a giacere in un cesso, perché impedisca ai topi di risalire dalla conduttura fognaria e perché d’estate sia mantenuta al fresco, senza tralasciare le condizioni di totale degrado in cui vivono ancora circa 800 dei 1500 detenuti presenti negli Opg, dove i giorni, i mesi di attesa per una vista medica che tarda ad arrivare cedono il passo al contenimento forzoso mediante l’abuso somministrato di psicofarmaci. Immagini vive, ancora oggi attuali ma che ruppero il silenzio sul mondo sommerso di quei non luoghi, grazie al lavoro svolto nel 2011 dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del servizio sanitario nazionale, presieduta allora dal sen. Ignazio Marino. Un’inchiesta a sorpresa nel corso della quale furono gli stessi parlamentari ad essere testimoni di come fossero in corso «atti coercitivi presso gli Opg di Barcellona Pozzo di Gotto e Reggio Emilia nei locali attrezzati per le contenzioni». E ancora, sempre dalla relazione «le modalità di attuazione osservate negli Opg lasciano intravedere pratiche cliniche inadeguate e, in alcuni casi, lesive della dignità della persona, sia per quanto attiene alle azioni meccaniche sia talora per i presidi psicofarmacologici di uso improprio rispetto alla finalità terapeutica degli stessi e alle norme AIFA di sicurezza d’uso. A ciò si aggiunge, in alcune situazioni osservate, la mancanza di puntuale documentazione degli atti contenitivi, con conseguente impossibilità materiale di controllo verifica degli stessi».

Fino al 1975, anno in cui con la riforma penitenziaria entrarono a far parte del sistema penale italiano gli Opg, c’erano le case di reclusione, che sostituirono i manicomi criminali, dove in molti ignoravano cosa accadesse all’interno. Dove forse, il silenzio singhiozzante di una sparuta minoranza e una sommessa indignazione di alcuni parlamentari, chiese, associazioni di volontariato, hanno contribuito affinché – rispolverando un noto monologo dell’attore Marco Paolini – possano ancora esserci negli Opg di oggi quelle vite indegne di essere vissute. E tra queste vite indegne, presenti negli Opg, come nelle Case lavoro e nelle Colonie agricole (ancora in vigore grazie al mai superato Codice Rocco del 1930 dell’era fascista), anche quelle degli internati, condannati al cosiddetto ergastolo bianco.

Chi sono gli internati? Si tratta di persone, per lo più tossicodipendenti, persone con problemi di salute mentale e persino malati di Aids, che non devono scontare una pena né essere rieducate, di (ex) detenuti che nonostante abbiano pagato il debito con la giustizia, restano in prigione perché ritenuti pericolosi socialmente e vengono sottoposti alla misura di sicurezza tale da poter essere protratta nel tempo, senza date finali certe, finché il giudice di sorveglianza non ritiene cessata la pericolosità sociale. Persone che stanno scontando la cosiddetta «pena accessoria». Che cosa è una pena accessoria? Una punizione supplementare che viene scontata dopo aver terminato la condanna penale e così, quando l’internato non ha un lavoro che lo possa reinserire socialmente, né ha nessuno che si prenda cura di lui, perché i legami con la famiglia di origine sono andati persi e logorati dal tempo, l’internamento può essere prorogato all’infinito. Per questo lo chiamano «ergastolo bianco». Una tortura. Legalizzata dallo Stato.

La video inchiesta che andò in onda su Rai tre nel programma Presa diretta è arrivata nelle case e si è imposta alla riflessione di molti come la nitida certezza che passano gli anni ma i rigurgiti di un «manicomio criminale» mai superato dalla Legge Basaglia (180/1978), che sancì la chiusura dei manicomi, restano inalterati. Soprattutto da quel momento in poi è partita l’indignazione pubblica e da più parti sono state unite le forze per chiedere la chiusura degli Opg, definiti veri e propri «lager». Dal 2011, grazie ad una proposta di legge del 2012, veniva indicato come anno utile per la chiusura degli Opg il 2013. Nulla fatto. Dal 2013 al 2015 la chiusura è stata rinviata per tre volte.

Ad oggi, nonostante i ripetuti proclami governativi, se abbiamo deciso di provare a tenere alto il livello di attenzione, è perché la chiusura degli Opg prevede la presa in carico dei pazienti dai Dipartimenti di salute mentale del Sistema sanitario nazionale, mediante le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS), strutture piuttosto piccole con non più di 20 persone, insufficienti e inadatte a sostituire le precedenti. Ci è sembrato importante, inoltre, dare voce dalle pagine del giornale Riforma un accorato appello lanciato il 3 novembre da 33 reclusi dell’Opg di Reggio Emilia con una lettera aperta, indirizzata ai parlamentari locali di ogni schieramento politico, al ministro Graziano Delrio (ex sindaco di Reggio E.) e al sindaco Luca Vecchi. La richiesta è di «non ridurre il personale medico, infermieristico e socio sanitario, che si occupa dell’assistenza dei pazienti ancora presenti nella sezione dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia». I ristretti gridano aiuto perché, «a causa del superamento e della chiusura dell’Opg con il trasferimento dei pazienti internati prosciolti presso le Rems», rischiano di cadere nel più lontano dimenticatoio «i pazienti ancora reclusi minorati e con malattia psichiatrica sopravvenuta in carcere, che continuano ad avere bisogno di cure e assistenza». Un ringraziamento: «A chi ci ha aiutato con cuore e professionalità, piano piano siamo riusciti a stabilizzare la mente e i pensieri», scrivono i pazienti, ma «il pensiero che tutto possa cambiare (in peggio) a dicembre, ci angoscia». Concludono con un’amara sottolineatura perché «essere privati di questa assistenza è come privare improvvisamente un bambino di ciò di cui ha bisogno per crescere sano» e chiedono pertanto, «di non perdere quello che abbiamo costruito, con fatica, a causa della riduzione del personale medico».

Invitiamo le nostre chiese, le lettrici e i lettori ad approfondire l’argomento, a prendere visione dell’appello: «Chiudere davvero gli Opg = più Servizi per la salute mentale e non REMS» presente sul sito www.stopopg.it e se lo riterranno a firmare perché cessino le torture.

Foto “Ospedale Psichiatrico Filippo Saporito” di Dinamo86Opera propria. Con licenza Pubblico dominio tramite Wikimedia Commons.