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La poesia come magma

Una ventina di anni fa Gianni D’Elia scrisse che Pasolini è un continente di mille nazioni da visitare: «ognuno può farsi di te la sua antologia». Parlava della poesia. Oggi sembra che ognuno possa farsi la sua immagine di Pasolini anche senza leggerne le opere. Eppure, se c’è una cosa che è rimasta presente, nella sua gigantesca, multiforme produzione artistica, è la scrittura in versi. Con stili – e persino lingue – molto diversi tra loro ma con alcune costanti, a partire dall’esibita centralità dell’io. Anche quando, intorno agli anni Sessanta, la poesia italiana del Novecento iniziava a manifestare un rapporto piuttosto difficile con l’io («l’io, io!… Il più lurido di tutti i pronomi!» già aveva esclamato Gadda nella Cognizione del dolore). Allora la forma letteraria che per eccellenza dovrebbe esprimere direttamente l’io (la lirica), nei versi di poeti come Sereni, Luzi, Caproni, Giudici, lasciava emergere personaggi, dialoghi, inserimenti di discorso diretto. Pasolini no: «Io sono una forza del Passato / solo nella tradizione è il mio amore» e subito dopo: «e io, feto adulto, mi aggiro / più moderno di ogni moderno». Alla fine tutto entra nella sua poesia, ma sempre attraverso l’esibizione di sé, soprattutto nelle forme della contraddizione, dello scandalo e dell’ossimoro.

All’inizio, nel friulano delle Poesie a Casarsa (1942), descriveva un mondo rarefatto, con suoni, gesti e cose che ritornano ossessivamente: campane, fontane, muri, vento, sole, luce, grilli, foglie ma soprattutto bambini e ragazzi, nominati con un affascinato svariare di parole (frut, fantàt, fantassùt, donzel, zovinùt…). Su tutto, ossessione delle ossessioni, la morte: la luce acceca, i fanciulli corrono a perdifiato, ma domina la distanza, la perdita e il silenzio. Con Le ceneri di Gramsci (1957) e La religione del mio tempo (1961) l’atemporale mondo contadino del Friuli è ormai impossibile: la realtà della grande città, di Roma («stupenda e misera città») che si espande come lebbra, cancella il «dolceardente» usignolo e la sua terra «arrisa da religiosa luce»; e anche la «luce morale» della Resistenza, «tutta quella luce, / per cui vivemmo, fu soltanto un sogno». È ora esplicito lo «scandalo del contraddirmi», la «disperata passione di essere nel mondo». La grande distanza è immediatamente visibile anche nel passaggio dai brevi, concentratissimi testi friulani ai poemetti dei libri romani, spesso in lasche terzine “dantesche”. Nello stesso periodo, però, Pasolini recupera anche i versi che intitola L’usignolo della chiesa cattolica (1958), con tutto il loro estetismo patetico sul corpo di Cristo e il godimento di mescolare peccato e purezza («Il gesto santo / del mio peccato / cade in un vespro / di castità»). Anche nei versi “religiosi” il ragionamento è di questo tenore: se Cristo fu esposto in croce, allora «bisogna esporsi», far gocciolare il sangue sotto gli occhi di tutti «per testimoniare lo scandalo».

Dopo il successo e appunto lo scandalo (e le denunce) provocati dai romanzi e dai film, anche nella poesia Pasolini riflette sulla propria figura pubblica e le contraddizioni che innesca, accettando e rifiutando al tempo stesso un proprio ruolo sacrificale. In Poesia in forma di rosa (1964) esplode il suo stile di profeta clamante nel deserto che è anche giornalista di denuncia e, insieme, manierato goditore di luce e sterco, oro e agonia, borghi secolari e Ina-Case, bellezza e morte. In Pietro II propone una visione di sé come papa, «per amore poetico di Cristo», incompreso nell’inizio della «Nuova Preistoria», ma subito compaiono i ragazzi che fermano «a Pa’» per la «partitella nel cuore della borgata» e nella grazia del gioco si trasformano in scrittori e letterati. Sempre con tono profetico si annuncia l’esodo di «migliaia di uomini / coi corpicini e gli occhi / di poveri cani dei padri / sulle barche varate nei Regni della Fame», che «sbarcheranno a Crotone o a Palmi, / a milioni, vestiti di stracci / asiatici, e di camice americane» (ma per evitare letture troppo facilmente adattabili all’oggi bisogna ricordare anche il finale, in cui «andranno come zingari / su verso l’Ovest e il Nord / con le bandiere rosse / di Trotzky al vento…»). Da adesso alla fine (l’ultima raccolta, Trasumanar e organizzar, del 1971) la poesia diventa davvero, magmaticamente, tutto: lirica, epica, pathos, allocuzione, orazione, esclamazione, descrizione, commento, profezia, visione, allegoria, ragionamento, appunto da riprendere, abbozzo, sacra rappresentazione della propria Passione, testimonianza del proprio tempo, del futuro, del passato, denuncia, autoassoluzione, autocondanna: «Sono tornato tout court al magma!»

Negli ultimi testi ironia e esibizione, provocazione e autoumiliazione diventano ancora più evidenti, ma anche con sprazzi di potente suggestione, come una poesia intitolata Patmos, dove l’io visionario apparentemente tace, di fronte all’incontro di due “altri” (le parole dell’Apocalisse e le vittime della strage di piazza Fontana): «Carlo Luigi Perego, 74 anni, risiedeva a Umate Velate / e in mezzo ai candelabri Uno che assomigliava al Figlio dell’Uomo / in via Stazione 21 / vestito di una lunga veste / lascia la moglie e due figli sposati / che hanno proseguito la sua attività di assicuratore / e cinto d’una fascia d’oro sul petto».

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