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Guardare le nuvole conoscendo i fondali

Pier Paolo Pasolini, che moriva quarant’anni fa in circostanze tragiche, è stato un poeta dell’eccesso; non solo perché visse intensamente e, per alcuni, fu eccessivo e trasgressivo nei comportamenti; ma anche perché volle fare tutto: poesie, romanzi, saggi, articoli, film, testi teatrali, e ancora interventi pubblici, interviste. L’urgenza di esprimersi, combinata con le attese di un’Italia che da lui voleva pronunciamenti oracolari, lo spinse ad attraversare i diversi linguaggi, a cui poche volte attinse compiutamente. Così forse il solo Vangelo secondo Matteo resta un capolavoro del cinema, e restano come opere migliori quelle che sembrano di minor peso, gli scritti provvisori, gli appunti (e nel cinema i documentari, i sopralluoghi filmati, i corto/mediometraggi).

L’ansia di dire tutto, di interpretare i tempi che stavano cambiando e le violenze dovute allo scambio esasperato fra flussi di denaro e merce umana lo obbligarono anche a riversare nelle sue opere una cultura elaboratissima, dotta, intessuta di riferimenti, letterari ma anche figurativi e musicali, a volte anche eccedendo. Lo stesso Vangelo ricorre troppo a ciò che nei secoli è stato detto su Cristo (la pittura di Piero della Francesca, la musica della Passione di Bach e degli spiritual).

Ma rifarsi alle più grandi tradizioni culturali era anche una forma di resistenza all’esclusione, che Pasolini patì a partire dall’ambiente della politica nel suo Friuli, la politica del sotterfugio mischiato al sospetto sessuale. Ed esclusione fu poi anche ribellione, volontà di resistenza alla degenerazione della modernizzazione indotta dai soldi, in grado di muovere le vite ma troppo lontani dalla materialità della vita; lontani dalla terra e dai campi.

Negli ultimi anni Pasolini si lasciò prendere la mano dalle prefigurazioni apocalittiche (il film Salò, il romanzo incompiuto Petrolio); i toni dell’intellettuale militante non erano suoi: gli vennero richiesti, da un’Italia che aveva bisogno di grandi opinionisti come prima aveva avuto bisogno di eroi loro malgrado e, prima ancora, di «uomini della provvidenza»; anche per questo i suoi toni migliori restano quelli del rimpianto, della nostalgia, dell’elegia, la forma breve. Se si considera la struttura dei suoi film, tre dell’ultimo periodo sono basati su novelle e singoli episodi (il Decameron di Boccaccio, i Racconti di Canterbury di Chaucer, le Mille e una notte), e lo stesso Vangelo segue la natura episodica del testo biblico, che diversamente dal tono fluido di Giovanni e da quello serratissimo di Marco, è fatto di generi diversi: parabole ma anche squarci poetici (gli uccelli del cielo e i gigli della campagna, cap. 6), ammonimenti e narrazioni; geniale la messa in scena delle beatitudini e delle invettive: un sermone sul monte, ma un monte percorso, attraversato, risalito e ridisceso da un Cristo sempre in movimento.

Non sottraendosi alla ribalta mediatica, Pasolini accettò un ruolo di vittima: avrebbe voluto continuare a narrare la sua terra e i suoi contadini, o a trovare del bello nelle borgate di Mamma Roma e Accattone (sottolineava questi momenti con musiche di Bach e Vivaldi), e gli toccò mettere le mani nelle peggiori nefandezze. Nei momenti migliori del suo cinema riuscì a dire, con stupefatta semplicità, che gli scartati, i marginali e gli sconfitti erano in qualche modo a contatto con il sublime. Il mediometraggio Che cosa sono le nuvole?, racconta di un teatrino delle marionette (Laura Betti, Franchi & Ingrassia, Totò e Ninetto Davoli) dove va in scena Otello. poi l’immondezzaro Domenico Modugno canta una stralunata canzone melodica portando via sul camion i rifiuti e caricando i pupazzi Davoli e Totò, per poi scaricarli dall’orlo di una discarica.

Ora sono sdraiati fra i detriti; il «moro di Venezia» chiede a un inverosimile Iago dalla faccia verde che cosa mai siano quelle cose bianche che stanno nel cielo; e Totò, che morì poco dopo la fine delle riprese, coglie nelle nuvole una realtà indescrivibile, a cui si può solo soggiacere nella contemplazione. «Ah, straziante, meravigliosa bellezza del creato» è il suo commento. Per cogliere questa bellezza, quella dei primi scritti, dove «il desiderio amoroso in quella parte del volto di un giovinotto emiliano (…) compare con la stessa naturalezza schiacciante dei campi» (Un paese di temporali e di primule, Guanda, 1993) era forse necessario metter mano al peggio, «abitare nei fondali», come dice James Ellroy, autore di romanzi noir filosofici; o, come scriveva Barth commentando l’Epistola ai Romani, «è necessario che l’abisso tra Dio e l’uomo sia spalancato, che lo scandalo sia tutto dato…». Era già un’impresa immane, per quest’uomo pur laborioso ed entusiasta del proprio lavoro, renderne conto servendosi dei tanti suoi linguaggi; l’Italia gli chiese anche la vita.

Foto “Totò e pasolini” by Unknownhttp://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/. Licensed under Public Domain via Wikimedia Commons.