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Sinodo dei vescovi. Per il “delegato fraterno” Macquiban c’è un piccolo passo in avanti

«Talvolta in questo Sinodo ci siamo concentrati su una sola forma di famiglia, quella tra genitori e figli, definita attraverso la forma sacramentale del matrimonio e la sua vocazione. Per alcuni così facendo non si tengono in considerazione i differenti modi in cui molte persone vivono e che hanno esperienze di altre forme di famiglia nei vari contesti e nelle differenti culture. Forse abbiamo sottovalutato come tutti noi apparteniamo alla famiglia della fede, costituita dalla chiamata di Dio». Sono le parole con cui il pastore metodista Tim Macquiban, direttore dell’Ufficio ecumenico metodista di Roma, è intervenuto al Sinodo dei vescovi conclusosi domenica scorsa 25 ottobre in Vaticano. Macquiban ha fatto parte dei “delegati fraterni”, i non cattolici invitati a prendere parte ai lavori sinodali con voce consultiva: dodici in tutto, sei ortodossi e sei protestanti.

«Ci sono stati timori tra i cardinali e i vescovi riguardo al procedimento dei lavori. L’autorità personale del papa era fuori discussione, ma il modello sinodale per affrontare le questioni importanti è stato causa di nervosismo – ha proseguito Macquiban -. Il testo finale presentato al papa riafferma l’insegnamento tradizionale sul matrimonio e la famiglia. L’opposizione alle unioni e ai matrimoni omosessuali, all’aborto e all’eutanasia è espressa chiaramente. Allo stesso tempo rafforza la volontà della chiesa cattolica di migliorare la preparazione al matrimonio e il sostegno alle famiglie in difficoltà». Un bilancio in parte positivo quello di Macquiban che ravvisa come si sia fatto un passo in avanti per imparare a vivere con la varietà di opinioni e pratiche presenti nei diversi contesti culturali e geografici: «un modello per la chiesa cattolica, per portare il vangelo della famiglia attraverso le diversità, per un mondo che chiede a gran voce compassione», ha concluso Macquiban.

Foto P. Romeo