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La piramide capovolta

Come verrà percepito a livello ecumenico, tra le varie Chiese cristiane, il Sinodo dei vescovi cattolici sulla famiglia che si è chiuso domenica scorsa, 25 ottobre? E’ una domanda che mi sono fatto spesso nelle ultime settimane, mentre seguivo il dibattito vivace, a volte addirittura feroce, che si è svolto all’interno delle mura vaticane. Come sempre, tra comunità di confessioni diverse, che hanno anche codici e linguaggi differenti, il rischio è quello dell’incomprensione, dell’equivoco. A maggior ragione, temo, in questo caso. Per due motivi: il primo è che intorno a questa assemblea è stata volutamente innalzata una cortina fumogena mediatica (il caso Charamsa, la lettera dei 13 cardinali, le false notizie intorno a un presunto tumore al cervello) che aveva come obiettivo di indebolire papa Francesco e l’ala episcopale favorevole ad alcune aperture.

Il secondo motivo è che intorno a questo Sinodo si erano create alla vigilia altissime aspettative, superiori – realisticamente parlando – alla capacità di cambiamento di un corpo vasto, complesso e diversificato qual è la Chiesa cattolica mondiale. E infatti, se si guarda alle conclusioni dell’assemblea, cioè ai 94 punti della relazione finale, si vede che non ci sono brusche inversioni di rotta. A parte il nodo dei divorziati risposati – su cui si introduce la parola chiave «discernimento» e si affida maggiore libertà ai vescovi di vagliare caso per caso se riammettere ai sacramenti i fedeli che hanno contratto un nuovo matrimonio – non emergono altre clamorose novità nel catalogo dei temi scottanti di morale sessuale e familiare.

Non di meno, a mio giudizio, questo Sinodo è stato una svolta epocale per la Chiesa cattolica. Più importante del Sinodo in sé e delle sue conclusioni “di merito”, infatti, è stata la «sinodalità» come metodo e come visione ecclesiologica la grande novità. Qui sì che il mutamento è radicale. Basti guardare al dibattito interno tra i vescovi, che è stato vero, sofferto, acceso: contrariamente a taluni momenti del passato, il papa non ha voluto chiamare i vescovi a Roma perché facessero da claque plaudente a decisioni che lui o la Curia romana avevano già preso.

«Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto», ha detto Bergoglio. E ascolto a tutti i livelli: dei pastori nei confronti delle persone che vivono “là fuori”, del papa nei confronti dei vescovi. Con il metodo della sinodalità, inoltre, tutta una serie di competenze e di responsabilità vengono decentrate: il papa restituisce potere alle Chiese locali, alle Conferenze episcopali. Il “romano pontefice” cessa così di essere un monarca assoluto chiuso nella sua torre d’avorio e torna realmente al suo ruolo di «vescovo di Roma», «servo dei servi di Dio», come era nel primo millennio cristiano, prima dei grandi scismi che hanno portato alla nascita delle Chiese ortodosse da una parte e delle Chiese della Riforma dall’altra. Certo, la struttura ecclesiologica della Chiesa cattolica resta quella di una piramide ma, come ha spiegato Bergoglio con grande sapienza spirituale, «una piramide capovolta» in cui «il vertice si trova al di sotto della base», da essa attinge la sua autorità, perché «l’unica autorità è l’autorità del servizio».

Se queste mie considerazioni non sono totalmente errate, allora tutto ciò ha potentissime conseguenze sul piano ecumenico. Il papato – una delle principali pietre d’inciampo nel cammino verso una piena riconciliazione tra le Chiese cristiane – cambia forma. Si aprono spazi di dialogo nuovi, che per decenni erano stati mortificati e ridotti al lumicino. Ho l’impressione, insomma, che il momento presente sia un kairòs, un momento opportuno di grazia, per tornare ad affrontare ai massimi livelli quel confronto teologico ecumenico sulle grandi questioni, cui si era abdicato nei decenni passati per evitare tensioni e strappi indesiderati. Ma l’Ortodossia, la Comunione anglicana e le Chiese della Riforma avranno il coraggio, la forza e la generosità per imboccare questa strada?

Foto Pietro Romeo/Riforma