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La pena di morte è dura a morire

Un sondaggio dell’agenzia Gallup ha registrato che oggi 6 statunitensi su 10 sono ancora favorevoli alla pena di morte. I risultati cambiano leggermente a seconda del reato ipotizzato, ma il sondaggio evidenzia come solo il 37 % dei cittadini si oppongano espressamente alla pena capitale. Dagli anni ’90 ad oggi le percentuali nell’opinione pubblica sono migliorate, ma gli Stati Uniti sono ancora uno dei 37 governi nel mondo che utilizza la morte per punire un reato. Ne abbiamo parlato con Sergio D’Elia, segretario dell’associazione Nessuno Tocchi Caino.

Sei americani su dieci ancora favorevoli: un dato positivo o negativo?

«L’opinione pubblica americana è quella più informata sulla pena di morte: la conoscenza da parte dei cittadini e il dibattito che si crea sulle ragioni pro e contro, sono la chiave per rilevare in maniera più precisa possibile quale sia l’umore popolare sul tema. In altri paesi questo dibattito non c’è, tant’è che le percentuali di favorevoli alla pena capitale sono molto più alte che non negli Usa, dove dobbiamo comunque registrare un trend verso la diminuzione, lenta e inesorabile del consenso per questa pratica arcaica. La Gallup già dagli anni ’40 conduce ogni anno un sondaggio su questo tema: qui, come in generale nei sondaggi sulla pena di morte, bisogna rilevare un’ambivalenza nelle risposte. Negli ultimi decenni si registrano diminuzioni nel consenso alla pena di morte, che tuttavia resta la scelta della maggioranza delle persone: ma se invece della domanda secca viene inserita un’alternativa, ad esempio parlando di ergastolo, allora la maggioranza si inverte. Gli americani per esempio sono più favorevoli a quest’ultimo tipo di pena. Una sensibilità che è cambiata e che cambia sull’onda di modifiche nelle legislazioni».

Qualche tempo fa, un altro sondaggio parlava di un consenso del 50% degli studenti italiani alla pena capitale: come lo spiega?

«Il favore dei ragazzi verso la pena di morte si spiega molto bene e lo registriamo ogni volta che andiamo a fare un incontro in un liceo. La sua spiegazione è molto semplice, quasi primordiale: un pensiero comune tra i ragazzi che hanno una concezione della giustizia semplice che ha bisogno di essere elaborata. Quando la discussione avanza, con questi stessi ragazzi, si entra nel merito, si informa e si spiega per esempio dei 150 condannati a morte scoperti innocenti negli Usa, o che una politica abolizionistica che impone allo stato un maggiore impegno nella prevenzione dei reati ha più successo, allora le opinioni cambiano. I ragazzi non sanno che le politiche di prevenzione sono le più efficaci per la sicurezza sociale. Inoltre per condurre a termine un processo capitale negli Usa, ci vogliono molti anni e costa molto: chi rischia la pena di morte ha giustamente molte garanzie, come i migliori avvocati una grande possibilità di ricorsi e appelli, test del dna ma non solo, insomma una macchina costosissima. I familiari delle vittime di pena di morte chiedono che questi soldi vengano investiti nei cold cases, ovvero quei casi di cui non si è mai scoperto l’autore. Quando si discute di questo, i ragazzi, che hanno una logica semplice capiscono che è molto più proficuo investire in politiche alternative alla pena capitale».

Perché resiste la cultura di infliggere la morte come correzione allo sbaglio?

«Gli Usa sono uno stato relativamente giovane, nel momento della loro nascita per risolvere le questioni cruciali hanno fatto riferimento all’Antico Testamento. Noi verifichiamo che negli Stati Uniti i paesi che più sono a favore della pena di morte sono gli stati del sud. Gli Usa sono sorti su un principio dell’occhio per occhio nell’amministrazione della giustizia, o sul diritto all’autodifesa: non c’è stata un’evoluzione per cui, come in Europa, si è scoperto che la sfida maggiore è quella di non eliminare l’autore di un reato, ma di scommettere che nell’espiazione della pena ci possa essere una possibilità di riscatto e di riabilitazione. Quest’ultima è un tipo di cultura che fa parte del nuovo Testamento, più che dell’Antico, e lentamente tutti gli stati americani ci stanno arrivando».

Sono più avanti i cittadini o i governi su questo tema?

«Il ruolo delle leadership è importantissimo, anche educativo. Se i governatori di quelli stati hanno detto ‘no’ alla pena capitale, questo ha un forte impatto di orientamento sull’opinione pubblica. C’è una sinergia tra i due momenti, quando i due aspetti cooperano e si incontrano, si hanno risultati positivi. Si fanno passi avanti, sul tema della pena agli innocenti, sui costi e nel dibattito. Parlare di pena di morte negli Usa sembra non ci riguardi, ma in realtà sì, perché amministrare la giustizia con la morte nel terzo millennio è il nostro “nessuno tocchi caino”: occorre affermare il valore, il principio, la dignità e l’inviolabilità della persona, questioni superiori a qualsiasi altra».

La pena di morte nel mondo nel 2014, secondo un rapporto di Amnesty International

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Foto: NHCADP Protest – World Day Against the Death Penalty | Via Flickr