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Luci e ombre delle chiese «etniche»

A chi la domenica mattina si trovi ad attraversare un quartiere periferico o una zona industriale dismessa, può capitare di sentire dei canti ritmati da tamburi e dal battere delle mani. Chi, anche mosso da semplice curiosità, decidesse di seguire questa musica, può trovarsi nei pressi di una chiesa evangelica africana, una delle tante che sono sorte in Italia in questi anni. All’improvviso il canto potrebbe interrompersi per fare spazio a una preghiera che, iniziando con un sussurro, via via sale di tono fino a diventare un’esplosione di parole, canti, gesti, applausi. L’atmosfera, già molto vivace, è resa ancora più dinamica dalla presenza di bambini, assai più numerosi di quanto non capiti di notare in una chiesa italiana, sia essa cattolica, protestante o ortodossa.

Il pastore anima il culto con grande enfasi e, spesso, prende una Bibbia, sgualcita dall’uso frequente, per leggere dei passi e commentarli – quasi sempre in lingue africane come lo yoruba o l’igbo, parlate in vaste regioni della Nigeria, o l’ewe o il twi, diffuse in Ghana. A colpo d’occhio, stupisce che si tratti di una comunità di credenti molto omogenea nel colore della pelle, nel modo di vestire o di pregare. Generalmente pronta ad accogliere con grande calore chiunque varchi la soglia del locale, è però una chiesa che nella lingua, nella forma del culto e nei contenuti della predicazione parla soltanto a un gruppo etnico.

Nate sull’onda dei processi migratori degli ultimi anni, queste chiese si diffondono con una grande rapidità e stanno cambiando la composizione dell’evangelismo in Italia. Oltre ai protestanti storici, infatti, e a quelli di matrice carismatica e pentecostale, nel nostro paese oggi si aggiunge una terza componente, numericamente molto importante: quella delle chiese cosiddette etniche, che cioè nascono e si organizzano soprattutto in base alla propria specifica etnicità. Per un immigrato poco inserito nella società italiana, queste comunità sono un luogo sicuro e accogliente, in cui sentirsi a casa e in cui ricostruire un circolo di amici e di conoscenti pronti a darti una mano quando ne hai bisogno.

Non ce ne dobbiamo stupire: la ricostruzione di comunità etniche, in cui l’immigrato si sente accolto e sostenuto, è un fenomeno tipico delle società multiculturali. Come ben sappiamo, è accaduto anche agli italiani emigrati nel mondo. Ma questa dimensione etnica, così utile e rassicurante, presenta anche delle insidie e, col tempo, rischia di diventare una vera e propria trappola.

Accade anche per le chiese africane o asiatiche che vediamo crescere in questi anni. Molto importanti per la prima generazione di immigrati, diventano meno attraenti per i loro figli e, tendenzialmente, luoghi estranei per i nipoti. Se per alcuni aspetti sono luoghi rassicuranti perché celebrano la propria identità e le proprie tradizioni, per altri aspetti, rallentano e talvolta impediscono l’incontro sociale e spirituali con fratelli e sorelle della stessa fede. Richiamandosi al passato da cui provengono, le chiese etniche non facilitano il presente e il futuro dell’integrazione in una nuova società. Il rischio, insomma, è quello della ghettizzazione.

Ed è per questo che molte chiese evangeliche italiane si sono impegnate a camminare in un terreno nuovo – quello in cui ogni gruppo etnico e ogni nazionalità, compresi gli italiani, pone il seme della sua cultura e della sua identità in un grande campo condiviso con altri. Non sarà un orto con i filari ordinati e composti; piuttosto, un prato fiorito con molti colori, accostamenti inattesi e sorprendenti. È questa la fatica, ma anche la gioia di «Essere chiesa insieme»: italiani e immigrati nell’unica chiesa di Cristo.

Foto via Piaxabay