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L’impronta di Lampedusa

Qui a Lampedusa, al molo Commerciale, una sessantina di ragazzi e ragazze eritrei aspettano di salire sulla nave che li porterà in Sicilia. Sorridono, sono felici di partire. Come se, oltre al porto, oltre al mare, ci fosse davvero la fine del loro viaggio, cominciato molto tempo fa e che ha incrociato altre vite, fatiche, violenze, soprusi. Sorridono: se il viaggio non è finito qui, almeno partono da Lampedusa, dove pochi giorni prima sono stati accolti. Un passo in più, un passo alla volta.

Sono stati trasportati al molo da un bus, che li ha caricati direttamente dal Centro di accoglienza. Il 4 ottobre, queste stesse persone, hanno protestato per non rilasciare le impronte digitali, manifestando per le vie di Lampedusa. No fingerprint, no borders, freedom hanno gridato nelle strade del centro città: niente impronte, niente frontiere, libertà. Imprimere il segno delle loro dita qui in Italia, li legherebbe al nostro paese nel caso facessero richiesta protezione, oppure li condannerebbe a essere rimpatriati, nel caso non ci fosse questa possibilità. Dopo la partenza del gruppo di eritrei, una cinquantina di migranti nordafricani ha effettuato uno sciopero della fame, durato poi due giorni, per lo stesso motivo. Le proteste si placano, le manifestazioni rientrano e forse le autorità hanno dato garanzia di non prendere le impronte. Almeno qui a Lampedusa.

Questa situazione, passata sostanzialmente inosservata sui mezzi di informazione, non può che confermare un importante cambiamento di queste settimane, la trasformazione del Centro di accoglienza dell’isola in hotspot, luogo di identificazione e registrazione dei migranti per permettere loro di entrare nel programma di ricollocamento con il sistema delle quote europee: in sostanza dividere i migranti economici da chi ha bisogno di protezione, distinzione su cui ci sarebbe molto da discutere, perché riduce la questione a una divisione tra buoni e cattivi, che parlando di persone alla ricerca di una vita dignitosa, non ha senso. «Dobbiamo smettere di pensare i migranti come soggetti deboli e ridare loro la giusta forza – dice Francesco Piobbichi, operatore di Mediterranean Hope – quando hanno la possibilità di lottare per i loro diritti fanno grandi cose, e in fondo lottano anche per i nostri. Sono loro che cambieranno la storia insieme a noi, nel bene o nel male».

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Le proteste dei giorni scorsi sull’isola | Foto: MH

Per chi osserva questi fenomeni, le proteste sono strettamente collegate all’avvio dei punti caldi di identificazione: «l’unico hotspot realmente operativo in Europa in questi giorni è quello di Lampedusa, isola che si conferma ancora una volta luogo di sperimentazione e laboratorio per quanto riguarda le politiche della frontiera europea – dice l’osservatorio Mediterranean Hope attraverso l’agenzia Nev – l’Italia ad ora dovrebbe ricollocare in Europa 24mila profughi e nel 2015 sono approdate più di 130 mila persone: il resto che fine farà? Cosa accadrà negli hotspot quando fra qualche mese girerà la notizia che dando le impronte si rimarrà in Italia?»

Nelle scorse settimane ad alcuni migranti appena arrivati nei porti siciliani, dopo una breve intervista da parte della polizia, è stato consegnato un decreto che li costringe a lasciare l’Italia entro 7 giorni, senza dare loro la possibilità di fare richiesta d’asilo, lasciando in questo modo decine di persone senza nessuno strumento per orientarsi, di fatto invogliandoli alla clandestinità e aprendo davanti a loro la possibilità di finire nelle maglie della criminalità.

Se gli hotspot diventassero questo, luoghi in cui lo spazio per capire e approfondire lasciano il posto alla fretta della burocrazia, alla freddezza dei numeri, alla scadenza delle quote, cosa ne sarà di Lampedusa? Chissà se i suoi abitanti, che ora salutano gli ultimi turisti, accetteranno questo triste ruolo per la propria isola, che negli anni ha vissuto molti cicli che riguardano le migrazioni, e molti cambiamenti spesso decisi dall’esterno. L’osservatorio di Mediterranean Hope qui a Lampedusa si sta interrogando su quali saranno i futuri cambiamenti sull’isola, con lo sviluppo dell’hotspot: la frontiera è liquida, mobile: «molti dicono che Lampedusa sia luogo di accoglienza, ma penso che non sia solo questo – dice Piobbichi – è sicuramente l’isola della salvezza per i i migranti, ma paradossalmente è l’isola della segregazione. Centinaia di ragazzi sono chiusi nel Centro di accoglienza che attendono di essere inseriti nelle caselle che riguardano la loro vita, se essere rifugiati o migranti economici, cioè clandestini a vita. Noi lavoriamo anche per rompere questo meccanismo».

Foto copertina: L’arrivo del traghetto a Lampedusa (a destra) e la Porta d’Europa (a sinistra). Matteo De Fazio ©