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Donne che lavorano, creano, ricostruiscono

L’esperienza della guerra segna ciclicamente paesi e società. Gli equilibri della ricostruzione dopo un conflitto sono delicati, ma spesso la spinta per la ripresa e una nuova crescita viene da chi è stato più colpito dalle situazioni di conflitto, da chi sembra meno attrezzato da un punto di vista sociale per affrontare le difficoltà: le donne. Un appuntamento ci ha dato l’occasione di raccontare alcune di queste storie dalla voce delle loro protagoniste, donne che hanno deciso di attivarsi per creare delle reti e porre le basi per fare della loro esperienza una ricchezza non solo per altre donne, ma per tutto il paese. Il convegno è promosso dalla rivista Confronti nell’ambito del progetto L’altra via. Dal conflitto alla ricostruzione: strategie al femminile, col sostegno dei fondi 8 per mille della Chiesa valdese – Unione delle chiese valdesi e metodiste.

Ascoltiamo l’esperienza di Rada Zarkovic, presidente della cooperativa bosniaca Insieme, che ha sede a Bratunac, vicino a Srebrenica, e Selay Ghaffar, afghana di etnia pashtun, presidente della Humanitarian Assistance for the Women and Children of Afghanistan (Hawca).

Rada Zarkovic, lei ha vissuto in prima persona il disfacimento del tessuto sociale dei paesi dell’ex Jugoslavia e in particolare della Bosnia Erzegovina durante il conflitto degli anni ‘90. Quando ha capito che era necessario provare a ripartire e come ha deciso di agire per farlo?

«Dopo esserci abituati alla realtà della guerra, quello che pensavamo fosse importare era salvare le memorie: i pensieri, le immagini, gli odori dei nostri paesi di nascita dovevano rimanere dentro di noi per aiutarci, un giorno, a ripartire. In particolare, le donne in tutta la ex Jugoslavia cercavano di creare ponti anche durante la guerra, e ci sono riuscite soprattutto grazie a una rete che ha intrecciato legami con tutto il mondo e in particolare con l’Italia e la Spagna da cui sono arrivati molti aiuti, contatti e inviti a partecipare a incontri per discutere e pensare insieme cosa poter fare una volta finito il conflitto».

Selay Ghaffar viene da un contesto completamente diverso. Lei è afghana, un paese in cui la guerra è iniziata quattordici anni fa portando molti cambiamenti e una situazione di incertezza costante. Come si colloca il suo lavoro in uno scenario come questo?

«Ho cominciato quando ero rifugiata in Pakistan nel 1999 dove, con un gruppo di uomini e donne, aiutavo i rifugiati afghani in quel paese. Naturalmente c’erano già i talebani e noi stavamo lavorando in particolare per le donne, a favore della loro educazione ma anche per una crescita delle loro potenzialità economiche. Il nostro lavoro era con le giovani e i giovani nelle scuole, per fare in modo che potessero studiare. Poi, nel 2001, abbiamo cominciato a operare anche in Afghanistan.

Mi sono resa presto conto che, nonostante avessi molto a cuore il mio impegno come attivista, bisognava dare una risposta politica a queste problematiche. Sono quindi entrata in Solidarietà, l’unico partito d’opposizione in Afghanistan, con il quale cerchiamo di far crescere la consapevolezza politica delle donne ma non solo, perché dopo quattordici anni di occupazione c’è molto da fare».

In che cosa consistono nel concreto i vostri progetti?

Rada Zarkovic: «Il progetto del quale mi occupo da quindici anni è una piccola cooperativa che si trova nell’area di Srebrenica, a Bratunac. I soci della cooperativa provengono da tutti i comuni di quest’area. Abbiamo bisogno di normalità, di speranza, di sogni; abbiamo tante conoscenze e cose da offrire al mondo e non vogliamo sentirci solo vittime. Fin dalla nascita della cooperativa abbiamo deciso di non vendere dolore, come si fa in molti casi, ma quello che è stato fatto con le nostre mani: marmellate, succhi di frutta e non solo, che si possono trovare in vari punti vendita anche in Italia. Siamo una piccola realtà che lavora in maniera artigianale e adesso vogliamo portare avanti la lotta per il riconoscimento della qualità dei nostri prodotti e non vogliamo la carità di quelli che entrano in un negozio e comprano solo perché siamo vittime per via del nostro passato. In tutto il mondo il vittimismo è diventato in molti casi una professione e questo noi non lo accettiamo. Non accettiamo neanche il modo in cui, in molti casi, la cooperazione internazionale aiuta quelli che finanziano i progetti che non hanno nessun contatto con la popolazione locale. C’è tanta rabbia ma anche tanta gioia, tanto orgoglio perché siamo riuscite a combattere per il nostro futuro, per realizzarlo con le nostre mani».

Selay Ghaffar: «La situazione nel paese ha bisogno di una risposta politica chiara, e per questo motivo il nostro partito, il Partito di solidarietà dell’Afghanistan, promuove diversi tipi di progetti che hanno tutti la stessa finalità: rendere la popolazione consapevole dei propri diritti e delle proprie possibilità. Per questo abbiamo molti progetti con i giovani e soprattutto con le donne. Abbiamo molti comitati che si occupano prima di tutto di insegnare a leggere e scrivere alle donne ma organizziamo anche dei corsi più specialistici per permettere loro di andare a scuola. In particolare, promuoviamo dei corsi di economia e microeconomia per fare in modo che non siano dipendenti economicamente dagli uomini della famiglia. Questa è una cosa importante anche per poter ridurre la violenza nei nuclei famigliari e in generale nella società afghana. Inoltre, promuoviamo delle sessioni di dialogo, soprattutto fra gli universitari. Facciamo in modo innanzitutto che siano consapevoli di quello che accade nel paese anche per un motivo molto pratico: a causa dell’occupazione i giovani dimenticano il proprio paese e pensano solamente a lavorare per un proprio interesse personale, ricercano il successo personale non pensando a quello della collettività. Queste sessioni coinvolgono anche persone comuni, affinché cresca in tutti una coscienza politica, sia di quello che accade a causa dell’occupazione, sia sull’operato del governo.

Dato che siamo un partito di opposizione, il nostro obiettivo è anche quello di fare una pressione politica, in primo luogo per fare in modo che la Nato vada via dal nostro paese, in secondo luogo per portare in tribunale e fare in modo che vengano giudicati tutti coloro che hanno perpetrato violenza in questi anni, ed è per questo che noi partecipiamo e organizziamo moltissime manifestazioni, per far emergere tutti questi episodi e perché non rimangano impuniti.

D’altra parte, come donna e attivista lavoro anche in progetti che vanno al di là di quello che organizza il partito: per esempio lavoro per il supporto legale alle vittime di violenza o nei progetti per le case di accoglienza di donne che l’hanno subita e trovano lì un rifugio, ma soprattutto nei corsi di leadership per ragazze. Loro sono il futuro e nel futuro le donne devono essere leader, se ben preparate hanno modo di avere dei ruoli importanti all’interno della società».

Un’ultima domanda riguarda l’accoglienza che questi progetti hanno ricevuto da parte della popolazione a cui si rivolgono. Quale sarà la loro eredità e quali entusiasmi e scetticismi li hanno accompagnati?

Rada Zarkovic: «Il nostro è un progetto economico ma con intenti politici molto chiari. L’obiettivo era, attraverso un’attività politica, creare le condizioni per riprendere una vita comune tra persone che si sono combattute fino a pochi anni fa. Abbiamo deciso di aprire un’attività economica perché la gente aveva bisogno di lavoro e solo con questo si può decidere di tornare in queste zone. Solo con un progetto economico, che è la continuazione di un’attività radicata sul territorio, nel nostro caso la coltivazione e la raccolta di frutti di bosco, era possibile. Per noi è stato importante riscoprire quest’attività, perché la gente che prima della guerra lavorava nelle fabbriche era spesso già impegnata nella raccolta della frutta e aveva le conoscenze necessarie. Come cooperativa abbiamo voluto contribuire alla riconciliazione attraverso il lavoro, in un ambiente in cui poter rielaborare i propri lutti e in cui ognuno poteva aprirsi con gli altri e parlare del proprio dolore. Oggi l’area di Srebrenica, quella in cui opera la cooperativa, è una delle due aree con il numero più alto di persone che sono ritornate dopo la guerra. Da quando abbiamo iniziato l’atmosfera si è molto rilassata, e la gente, non solo gli anziani, ha cominciato a tornare e stiamo creando una condizione per vivere una vita normale».

Selay Ghaffar: «La popolazione accoglie positivamente il tipo di lavoro che facciamo a livello umanitario, ma data la presenza estera nel paese i progetti che vengono fatti da organismi internazionali sono impegni a breve termine, per cui non c’è una vera continuità.

Inoltre, da un punto di vista politico, anno dopo anno, le persone sono diventate più consapevoli del fatto che sia gli Stati Uniti sia il nostro governo stiano lavorando per dei benefici solamente personali e non in favore della popolazione. Faccio solo un esempio: nel 2004, quando il nostro partito è stato fondato, eravamo circa 700 e c’erano pochissime donne; nel 2014 questo numero è salito a 31.000 di cui il 33% composto da donne. E’ cresciuta una consapevolezza e una volontà di cambiamento. L’aumento di partecipazione è diventato importante nonostante l’evidente difficoltà a manifestare contro il governo. Anche questo è il sintomo di un grande cambiamento, segno che anche il popolo afghano rifiuta di essere una vittima. È molto difficile lavorare in ambito sociale e politico. C’è una corruzione dilagante non solo nel governo, ma che permea tutti gli strati della società e quindi anche le organizzazioni non governative. Quello che stiamo facendo è dare fiducia alla popolazione perché si trovi un’altra via, anche se non è facile perché l’Afghanistan è in guerra da oltre 30 anni e i partiti non hanno una buona reputazione. Lavorare sulla fiducia della popolazione rispetto al nostro partito è una grande sfida, ma i numeri ci dicono che ce la stiamo facendo».

Foto Stefano Stranges, Srebrenica, Bosnia