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Giustizia al veleno

Alcune foto con lei sorridente, una insieme ai figli, una nel giorno del suo diploma in teologia, mentre indossa la toga e il “tocco” dottorale, accanto al teologo Jürgen Moltmann. Accanto, una scritta: «Kelly Renee Gissendaner (1968-2015). Riposa nella forza. Riposa nella pace. Non sarai mai dimenticata». E’ quanto si leggeva sul sito web che fino alla mattina del 30 settembre raccontava la storia di questa donna e aggiornava sulle decine di iniziative per ottenere la commutazione della sentenza di morte che l’aveva colpita, molti anni fa. Il titolo della pagina web richiama un celebre brano musicale, Georgia on my mind, che mentre scrivo risuona nella mia stanza, nell’interpretazione struggente di Ray Charles.

Il sito, e i suoi contenuti, alcuni mesi fa ripresi anche da questo giornale, non sono bastati. Non è bastato l’appello dei figli, che avevano perdonato la madre, assassina del loro padre, e volevano che vivesse; non è bastato l’intervento di un ex alto funzionario dell’amministrazione penale della Georgia, il quale ha detto che Gissendaner era una risorsa per riabilitare detenuti e detenute; non è bastato che uno dei giudici che, a suo tempo, avevano confermato la condanna a morte, abbia dichiarato di essersi pentito, anche a motivo di circostanze attenuanti che non conosceva al momento della decisione; non sono bastate le decine di veglie di preghiera, le migliaia di lettere, l’impegno delle chiese e delle organizzazioni per i diritti umani; non è bastata la testimonianza delle compagne di prigionia, una delle quali ha dichiarato che Gissendaner l’ha aiutata a superare la tentazione del suicidio; non sono bastati diciassette anni nel braccio della morte, nel corso dei quali, a detta di tutte e di tutti, la condannata ha mostrato con la propria esistenza che cosa intenda la Scrittura quando parla di «conversione» e «novità di vita»; non sono bastati nemmeno gli interventi del pontefice romano: quello della scorsa settimana al Congresso, che ha condannato la pena di morte come tale, e la lettera sul caso specifico, inviata alla vigilia dell’esecuzione, nella quale si «implora» la commutazione della pena.

Nulla è bastato. E nulla è stato risparmiato alla condannata. Altre due volte, mesi fa, l’esecuzione era stata sospesa, rispettivamente poche ore e pochi minuti prima che l’«operatore» premesse il bottone; e la terza volta il rito mortale è stato rinviato per oltre quattro ore, per dar tempo alla Corte Suprema di confermare l’ordine del Comitato per la clemenza e la libertà condizionale (si chiama così…) della Georgia. Secondo i difensori, tutto questo costituisce una «punizione inusuale e crudele», vietata dalla Costituzione americana. Il comitato non è d’accordo: la punizione è normale e appropriata. Del resto, l’aveva già detto mesi fa e la giustizia al veleno non vuole smentire se stessa e la propria mostruosa caricatura di onnipotenza.

In un certo senso, in effetti, è tutto normale: ogni giorno, nel mondo, le esecuzioni sono decine e non raramente riguardano innocenti. Perché proprio quest’assassina avrebbe dovuto essere salvata? Perché credeva in Gesù? Troppo facile. Che poi pastori, suore, preti, teologi e papa si commuovano per lei suona quasi sospetto: ecumenica solidarietà di setta e di corporazione. E la richiesta dei figli? «Non sono i più indicati a pronunciarsi», ha dichiarato un Procuratore distrettuale. Certo: lo sono il comitato (clemente) e la corte (suprema).

E così Kelly Gissendaner se n’è andata. Lo ha fatto, dicono le cronache, chiedendo commossa di dire ai figli che avrebbe cantato Amazing grace: una grazia sperimentata «a caro prezzo», come diceva, utilizzando un’espressione famosa che aveva conosciuto studiando teologia. Quanti hanno pregato perché questa stessa grazia riuscisse a far cambiare idea ai giudici clementi e supremi avvertono per l’ennesima volta una fitta che non diventa mai «normale», anche se il mancato esaudimento non è un’eccezione in una vita che prega: anzi, secondo i racconti della Passione, appartiene al suo centro.

Non so se davvero Kelly Gissendaner non sarà mai dimenticata. So però, purtroppo, che altri comitati per la clemenza e la libertà condizionale faranno in modo che, già a partire da oggi, altre donne e altri uomini siano, come si dice, «giustiziati». Il teologo Ernst Käsemann ha scritto da qualche parte: un cristiano o una cristiana non possono transitare davanti a un’esecuzione capitale senza ricordare che il loro Signore è stato condannato a morte.

Foto “SQ Lethal Injection Room” by CACorrections (California Department of Corrections and Rehabilitation) – http://www.flickr.com/photos/37381942@N04/4905111750/in/set-72157624628981539/. Licensed under Public Domain via Commons.