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L’Ilva alla sbarra

Il gigante Golia vacilla sotto i colpi di Davide. Il prossimo 20 ottobre, davanti alla Corte d’assise di Taranto, avrà inizio “Ambiente svenduto”: tre società e 44 persone fisiche dovranno rispondere del presunto disastro ecologico, con conseguente distruzione dell’ambiente marino e atmosferico e la morte di decine di persone, causato dall’Ilva nel territorio di Taranto dal ’95 ad oggi. Tra i rinviati a giudizio anche l’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola e il direttore generale di Arpa Puglia Giorgio Assennato, oltre a diversi manager dell’azienda siderurgica, amministratori locali e tre società della galassia Ilva.

Nelle more del processo, i titolari dell’azienda Fornaro, fra i più colpiti dall’ordine di abbattimento di centinaia di capi di bestiame per la contaminazione del terreno di pascolo, si rivalgono direttamente sugli allora dirigenti dell’Ilva, che avrebbero concorso al danno. I sequestri dei beni, per alcuni milioni di euro, sono stati disposti dalla giudice per le indagini preliminari del tribunale di Taranto Vilma Gilli.

«Una vera soddisfazione, dopo anni di attesa e di lotte – conferma Vincenzo Fornaro – speriamo che sia l’inizio di un nuovo corso per la città».

Siamo alla vigilia della prima udienza del processo “Ambiente svenduto” ma per lei, con la decisione del gip, è già arrivata la prima vittoria.

«Dopo sette anni arriva finalmente una svolta positiva: siamo riusciti a bloccare

87 proprietà immobiliari, anche di un certo prestigio, di un valore corrispondente a una cifra che supera abbondantemente quanto avevamo richiesto come risarcimento e quindi riusciremo a soddisfare anche le richieste delle altre parti civili. Mi auguro che questo nostro passo sia di esempio ad altri che hanno subito danni dall’Ilva; chi può farlo si attivi per sequestrare immobili alla classe politica coinvolta in questa vicenda. Noi non avevamo titolarità per farlo ma spero che la città risponda nuovamente, visto che noi abbiamo dimostrato che si può ottenere giustizia, basta volerlo».

Che ruolo ha avuto lo Stato in questi anni nella tutela dei vostri diritti?

«Abbiamo lottato da soli per avere giustizia, perché il governo non ci ha mai tutelato: l’unico interesse delle istituzioni era consentire alla grande fabbrica di lavorare. Con l’abbattimento del bestiame abbiamo perso il nostro sostentamento ma in questi anni non c’è mai stato un provvedimento che ci consentisse di riprendere a lavorare. Ora avremo finalmente un risarcimento, cosa che fino ad oggi non eravamo riusciti ad ottenere perché era stata esclusa la responsabilità civile di tutte le proprietà. Dovremo comunque aspettare la fine del primo grado del processo, quindi presumibilmente un altro anno».

Ha appena chiuso il reparto Rivestimenti dell’Ilva per mancanza di commesse e 136 lavoratori sono in solidarietà. Una decisione che sembra confermare la crisi dell’impianto siderurgico.

«L’Ilva continua a produrre in perdita e non capisco perché il governo continui a mantenere in piedi un carrozzone che brucia soldi e che non produce nessun utile per la comunità ma soltanto debiti: infatti i 137 operai saranno messi quanto prima in cassa integrazione. Si vocifera che l’Ilva abbia perso anche la commessa da trecento milioni sulla Tap (la realizzazione del gasdotto Transadriatico ndr). E’ di fatto uno stabilimento completamente inutile che continua ad avvelenare la città».

Una volta chiusa la fabbrica, quali attività alternative si possono sviluppare a Taranto?

«C’è da fare tantissimo dal punto di vista turistico e culturale; molti imprenditori sono già disposti a investire sul territorio per diversificare le attività e offrire sbocchi occupazionali diversi. La società civile è molto attiva anche in questo senso e ha molte proposte in cantiere, come l’associazione “Taranto la città spartana”, che sta rilanciando questo marchio per attirare turisti».

Sul fronte dell’inquinamento, il livello delle polveri nell’atmosfera è diminuito?

«Non è cambiato nulla, anzi, la situazione si è addirittura aggravata dal 2013, quando l’Ilva è stata presa in carico dallo Stato. La fabbrica non sta lavorando a pieno regime perché alcuni altoforni sono fermi ed eppure le emissioni sono notevoli – sono raddoppiate negli ultimi due anni – cosa che lascia pensare che se mai dovesse eventualmente tornare a pieno regime l’inquinamento diventerebbe insostenibile. Tutto è peggiorato, anche sul fronte della tutela della sicurezza sul lavoro. L’ultimo incidente è stato drammatico, con un operaio arso vivo da una colata di ghisa incandescente: segno tangibile dell’inadeguatezza della gestione statale».

Foto di mafe de baggis via Flickr | Licenza CC BY-SA 2.0