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Siamo un’eccezione?

Ringrazio Riforma per la bella doppia intervista a P. Ricca e G. Tourn apparsa sul n. 33 e, avendo sollevato in Sinodo il tema delle cancellazioni, mi sento chiamato in causa. Vorrei premettere che non sono particolarmente patito dei regolamenti, ma non posso neppure ignorare che la cancellazione è prevista dalle Discipline valdesi (RO.2/1977 § 3) per alcuni casi specifici (come non «contribuire per il bisogni della chiesa», § 2.c). Anche se oggi non ci piace più ricordarlo, noi siamo (stati) una chiesa che «cancella». Mi è ancor più difficile ignorare che questo articolo delle Discipline esista, sapendo bene che – anche recentemente – altri articoli sono stati citati per negare (legalmente) il diritto di voto a persone che si erano trasferite da una chiesa all’altra in momenti dell’anno «sbagliati» (RO.2/1977 § 11). Delle due, l’una: o le Discipline «valgono» per come sono, o vanno interpretate a seconda dell’occorrenza (o delle sensibilità ecc.).

Non è una questione futile, ma decisiva per il nostro modi di intendere la chiesa oggi: quanto prendiamo sul serio le regole che ci siamo dati? Ci descrivono ancora, o invece esse descrivono quel che vorremmo essere ma sono sostanzialmente inutili per la gestione quotidiana? Non è forse anche questa la «certezza del diritto» che ci ricordava il compianto Franco Giampiccoli, fondamentale per evitare di cadere nell’arbitrio? Immagino che chiunque abbia responsabilità nella chiesa, dalla Tavola valdese ai Concistori o Consigli di chiesa, avverta come un po’ lacerante la contraddizione tra realtà e Discipline, il cui impianto è pur sempre del 1977 – prima del rapimento Moro, ere geologiche fa per la nostra società, soprattutto per quanto riguarda la questione del senso di appartenenza.

A mio modo di vedere il nodo della questione non è «cancellare» o «non cancellare» persone che probabilmente non hanno un interesse specifico a rimanere in elenchi così lontani dalla loro sensibilità: questo dibattito ne nasconde un altro. Che cosa vuole dire (se vuole dire qualcosa) appartenere a un gruppo generalista e dai confini elastici come la chiesa oggi? Non possiamo poi dimenticare che l’Italia di oggi è particolarmente parcellizzata ed è molto difficile «tenere insieme» anche gruppi che hanno interessi comuni specifici, proprio perché è molto difficile mantenere altro il senso appartenenza. Come controprova, basti pensare a quanti iscritti aveva un partito come il Pci nel 1977 e quanti ne ha il Pd oggi (lo stesso discorso vale per altre formazioni politiche).

A complicare la faccenda c’è anche un’altra questione, tutta «nostra»: la convinzione di essere un’eccezione rispetto alla regola. È vero che il messaggio biblico, a partire dalle prime pagine, si basa sull’imprevedibile forza creatrice di Dio, ma a volte ho il sospetto che nel caso specifico noi confidiamo più sulla forza della tradizione, che su una fede incrollabile nell’azione dello Spirito Santo che scompiglia le carte della storia.

Ripensando ad alcune discussioni sinodali, credo che una delle nostre (piccole) priorità dovrebbe essere quella di superare la distinzione di membro di chiesa/membro elettore (per le chiese valdesi, dato che in quelle metodiste non esiste) e gli articoli delle Discipline che parlano di cancellazione. Però discutendone apertamente in Sinodo, non facendo finta collettivamente che non esitano. Annuncio fin d’ora il mio voto in questa direzione.

Foto P. Romeo