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Il pozzo della Storia

La fauna umana si divide in due specie: volatili e terricoli. La prima è composta da persone che a una certa ora del giorno salgono su un aereo e vanno dove gli pare, l’altra, da persone che a una certa ora del giorno si alzano e si incamminano. Per strada sono tormentati da ostacoli naturali e umani, costretti a scontrarsi con una materia oscura che i cosmologi non riescono a vedere e che loro invece riconoscono benissimo. Molte isole del Pacifico sono abitate da campi di concentramento pieni di quei camminanti partiti dall’Asia meridionale e lì segregati dal governo australiano che ne vende altri alla Cambogia. «La Bestia» o Tren de la muerte è un treno merci che trasporta ogni anno sul tetto dei suoi vagoni da 400.000 a 500.000 persone che dal Centramerica tentano di andare in Messico e poi negli Stati Uniti se non vengono divorati prima dal treno stesso, dai narcotrafficanti, dalle polizie. Il più grande campo profughi del mondo non sta in Europa o in Medio Oriente, ma in Kenya, a Dadaab, e racchiude quasi mezzo milione di persone in zona semidesertica. È un continente umano in continua deriva, un popolo di popoli che ritiene che andarsene, incamminarsi sia una prerogativa degli esseri viventi, animali umani e non umani, addirittura un dovere.

I cataclismi naturali e sociali hanno questo di bello: che svelano l’intima natura di un’epoca, di un sistema sociale. Ci rivelano che il capitalismo globale con le sue razzie di terre, materie prime, forza lavoro, i suoi banchieri e bombardieri, i suoi comitati di affari e il divino mercato, non è la soluzione. Forse è il problema. Così le catastrofi ci spogliano nudi a esibire le nostre paure e passioni. Di fronte agli spostamenti di moltitudini che abitavano sufficientemente altrove ci accorgiamo di essere sprovveduti e che il nostro sapere non ci fornisce soluzioni perché siamo poco preparati a pensare l’impensabile. Sperduti, sfoderiamo il nostro umanesimo o il nostro fascismo, che non sono la stessa cosa, ovvio, ma sono entrambi inconcludenti. Chilometri di filo spinato – rieccolo pimpante un reperto novecentesco! – non fermeranno gli «invasori», mille centri di accoglienza non ristabiliranno l’equilibrio tra volatili e terricoli, tra mondi in macerie e mondi (relativamente) abbienti.

Abbiamo visto la foto di Aylan Kurdi, siamo inorriditi e commossi. Non abbiamo visto la foto di Inna Kukurudza, non siamo inorriditi e non ci siamo commossi. Abbiamo visto poliziotti cèchi scrivere con il pennarello sul braccio dei bambini profughi e subito ci è scattata in mente la svastica, sbagliando. A Praga si scrive sulle gambine dei neonati il cognome per non confonderli. Tuttavia la Storia ci spinge lì, a rivedere il già visto. Non ci sono rifugiati nella Repubblica Ceca, ma ci sono i Sudeti con il loro andirivieni di tedeschi e di Seconde Guerre Mondiali. Al tempo del Patto di Varsavia i «paesi fratelli» si aggredivano tranquillamente l’un l’altro. La Storia è un pozzo di san Patrizio, peschi quello che vuoi o che puoi.

Abbiamo sentito che in Ungheria un vescovo cattolico ha dichiarato che «il Papa sbaglia». Proprio così. Sbaglia a proporre accoglienza per i profughi. Non ricorda, né lui né Orbán, i 200.000 connazionali fuggiti dai carrarmati russi nel 1956 e accolti qua e là. In realtà lo ricordano benissimo, ma pensano che il similnazismo serva ad affrontare il presente gremito di non-compatrioti e Orbán, come un Kruscev o un Kadar qualsiasi, prospetta il carcere per i prossimi rifugiati e si allea con Putin, maestro di comunismo, versione Kgb. A contrastare questa soluzione splendidi gruppi come Migszol che smentiscono la nostra immagine dell’ungherese fascistizzato.

La Storia non è magistra a nessuno. Ancora meno lo è la cosiddetta Memoria. Che cosa dovrebbe ricordare la piccola Slovacchia: di aver avuto un capo del governo, monsignor Josef Tiso, prete cattolico, alleato dei nazisti o di essere poi robustamente insorta contro i nazifascisti? Li ricorda tutti e due e dichiara che accoglierà 200 profughi siriani, ma che siano cristiani certificati. Dice Sándor Weöres, poeta ungherese del Novecento: Perché è facile, facile/ essere gigante fra nani – ma assai difficile e meglio / essere tra nani/ nano migliore di altri. Muri di filo spinato in Bulgaria, muri in costruzione in Macedonia, muri mentali in Polonia, sputi in faccia ai profughi in Danimarca, consistenti proposte di accoglienza in Islanda, benvenuto non retorico della Serbia, manganellate in Grecia, coraggio di Angela Merkel e via continuando con il listino delle buone e cattive azioni.

Siamo entrati nell’era delle Nuove Scoperte Geografiche. Non c’è bisogno delle tre caravelle, bastano i barconi e le scarpinate dei migranti che ci fanno toc toc. Il Mondo Nuovo è sotto casa e non smetterà di venirci a trovare. Se pensiamo che i temi da affrontare siano «trattato di Dublino sì, no», «euro sì, no», «quote profughi sì, no» siamo spacciati.

Foto “Butterfly on border barrier” by Photo: Gémes Sándor/SzomSzed – http://szegedma.hu/hir/szeged/2015/08/migransok-szazai-ozonlenek-roszkerol-szegedre.html. Licensed under CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons.