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Due idee di Europa

Mai come in questi giorni, il tema delle migrazioni è al centro di ogni dibattito pubblico. Telegiornali, rubriche, talk show ci scaricano addosso milioni di parole, talora urlate e sopra le righe. In alcuni di questi discorsi tornano ricorrenti espressioni come «Aiutiamoli a casa loro»; «non siamo più padroni a casa nostra». Casa nostra e casa loro, due mondi divisi e lontani, separati da un mare, da un confine o da un deserto, da quella linea sottile che ritroviamo nelle carte geografiche. Divisi dal filo spinato tagliente che si sta alzando lungo il confine tra l’Ungheria e l’Austria: «175 kilometri di acciaio ad alta tecnologia», ha annunciato con enfasi il premier di Budapest. O come i quasi mille chilometri della barriera protettiva che a tratti rafforza il confine tra Stati Uniti e Messico e che si ritiene assolutamente impenetrabile da parte dei migranti che cercano di raggiungere California, Texas o Arizona. E dove non si sono filo spinato e barriere ci sono confini naturali, come il deserto di Sonora o il Mar mediterraneo.

Confini tra Stati, certo, ma anche confini tra Nord e Sud del mondo, laddove «Nord del mondo» non è solo un’espressione geografica ma anche sociale ed economica. Quello tra Nord e Sud è infatti il confine tra ricchezza e povertà, tra libertà e dittature, per molti tra la vita e la morte. Come spiegare altrimenti l’immagine degli immigrati che, arrivati esausti su un barcone a Lampedusa o a Pozzallo, con le poche forze che restano loro alzano le dita in segno di vittoria e gridano freedom, libertà? Libertà dalla paura, dalle dittature, dalla fame, dalle guerre civili.

«Aiutiamoli a casa loro», sembrerebbe persino un’ipotesi ragionevole. Ma la loro casa non esiste più. In questi anni, sono letteralmente crollati stati come la Libia, la Siria e l’Iraq; la Somalia è da tempo un campo di battaglia tra fazioni contrapposte; l’Eritrea vive sotto una ferrea e brutale dittatura. Chi rischia la vita per arrivare in Europa, lo fa proprio perché non ha più una casa e cerca un rifugio sicuro e accogliente.

E lo cerca in Europa, in una casa comune che negli anni ha saputo accogliere e integrare milioni di lavoratori. A noi decidere se questa casa deve continuare a essere quello spazio comune di incontro in cui si tutelano e si rispettano i diritti umani o se deve trasformarsi in una fortezza chiusa in se stessa e indifferente a ciò che accade attorno a essa.

Siamo di fronte a una scelta tra due idee, due modelli, due progetti europei. L’uno o l’altro non sono indifferenti per le chiese che, pur nella loro diversità, si sono ritrovate unite a chiedere e a vivere un’Europa dell’accoglienza e della solidarietà. Lo fanno con gli appelli più solenni ma soprattutto aprendo parrocchie e centri di accoglienza, offrendo un tetto e una speranza a chi alla fine ce l’ha fatta. Nel mondo protestante in genere si parla di Essere chiesa insieme come di un processo di integrazione tra evangelici italiani e immigrati. In questi giorni in cui le porte di tante chiese evangeliche si aprono all’accoglienza Essere chiesa insieme significa ancora di più. Essere chiesa insieme per ricostruire la speranza di persone che dietro di sé hanno lasciato tutto ciò che avevano. Essere chiesa insieme, l’unico modo di essere veramente chiesa di Cristo.

Foto: “Barbed wire B&W” by Tiago FiorezeOwn work. Licensed under CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons.