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La chiesa deve ascoltare il mondo

Da una decina di anni in Gran Bretagna, la Chiesa di Scozia – così come quella anglicana – sta lavorando sul tema della crescente secolarizzazione. Ne parliamo con la pastora valdese Monica Michelin Salomon, che presta servizio presso la Victoria Tollcross, Chiesa di Scozia, a Glasgow.

Quali sono i segni più evidenti della secolarizzazione in Scozia?

Il rapporto della popolazione generale nei confronti delle chiese è molto cambiato. Fino a 10-15 anni fa la Chiesa di Scozia, così come quella d’Inghilterra, incontrava per lo più le persone in occasione di particolari momenti liturgici (matrimoni, funerali, battesimi). In questi ultimi anni la realtà è cambiata: quelli che non avevano alcun contatto con la chiesa, se non nelle occasioni liturgiche ufficiali, hanno preso consapevolezza della loro identità, della loro vita, e si sono rivolti ai civil celebrant (celebranti laici), che hanno cominciato a celebrare matrimoni, e ora anche un numero crescente di funerali. Per un periodo molte persone piuttosto che rivolgersi al pastore o al prete si sono recate dagli umanisti, ma a motivo del loro rigore – gli umanisti non accettavano, ad esempio, che venisse eseguito un inno, che venisse menzionato Dio o letta una preghiera – è cresciuta la figura del celebrante laico che organizza l’evento liturgico come lo vuoi tu.

Qual è la risposta delle chiese?

Nel corso del dibattito sinodale sulla secolarizzazione mi ha colpito molto il fatto che sembrava che la discussione riguardasse esclusivamente le chiese valdesi, metodiste, e anche quelle battiste, mentre invece si tratta di un fenomeno molto più vasto. Come si dice in Gran Bretagna, e anche in America, il fenomeno della crescente secolarizzazione riguarda soprattutto il Nord ovest del mondo, e si riferisce alle persone che si disinteressano della religione organizzata. Ora cresce nelle chiese la consapevolezza che la secolarizzazione è un fenomeno molto più complesso. In Gran Bretagna, ad esempio, le comunità lavorano molto nel campo sociale: diffuse sono le food bank (banche alimentari) a cui la gente si rivolge perché non si riesce ad arrivare a fine mese. Il lavoro è lodevole ma coloro che sono separati dalla chiesa dicono “il lavoro nel sociale lo può fare chiunque, non è necessario essere membro di chiesa o un credente per fare volontariato nella food bank”. Fino a pochi anni fa la critica era: non partecipo alla chiesa perché mi annoio, perché non mi dice niente, perché è lontana dalla mia generazione. Ora ti dicono: a me non interessa. 

Sul disinteresse come si lavora? 

Alcuni dicono che la ragione della secolarizzazione sia il calo della domanda di religiosità che avrà come risultato la scomparsa (chiusura) delle chiese; altri dicono che rimarranno in vita le chiese più tradizionaliste, tendenzialmente più rigorose, strutturate, che – per dirla malamente – danno delle risposte facili ai problemi odierni. Queste chiese avrebbero, nella crescente secolarizzazione, avrebbero più successo. Ma mi chiedo, cos’è questo successo nei termini della gloria di Dio? In che rapporto è il successo con la grazia di Dio?

Per circa vent’anni la chiesa ha parlato soprattutto in termini manageriali, approcciando le cose in termini di business, discorso che funzionava finché la critica era quella di una chiesa distante, noiosa. Ma dal momento che ora c’è disinteresse nei confronti delle chiese, tutto va ripensato. Che la popolazione sia diventata secolarizzata non vuol dire che sia non credente, infatti vive in modo diverso la spiritualità, nella quale ricerca soprattutto l’autenticità. 

Come si intercetta questo bisogno di autenticità? 

È difficilissimo, perché a questa necessità si associa anche un bisogno di partecipazione senza appartenenza. Mi spiego: le persone partecipano volentieri alle azioni di aiuto, servizio, accoglienza che le comunità portano avanti, ci credono seriamente, ma non vogliono essere membri di chiesa. Questo approccio sta coinvolgendo anche altre realtà sociali. 

Credo che prima di tutto la chiesa debba imparare ad ascoltare il mondo. Certo che la chiesa non deve vivere del mondo né per il mondo, ma deve vivere nel mondo, come diceva l’apostolo Paolo. La chiesa deve ascoltare e capire come il mondo comunica, essendo consapevole di portare al prossimo qualcosa di speciale: la grazia di Dio. Una grazia che non è mia, ma della quale io sono strumento: io porto al mondo questo dono che per prima ho ricevuto. Però, se lo porto con dei tempi sbagliati, con una comunicazione sbagliata, allora anche il messaggio – che è il più meraviglioso del mondo – non verrà ascoltato.

Ma il messaggio dell’evangelo non è più potente del messaggero stesso?

Quando mi dicono che la secolarizzazione farà morire le chiese, rispondo che morire non significa necessariamente scomparire, ma potrebbe significare una rinascita. La chiesa di Scozia sta lavorando su diversi fronti: missionologia, l’uso dei social media – che è cresciuto negli ultimi 5 anni – la presenza sul territorio, l’interazione con lo Stato, la scuola, l’educazione; stanno lavorando anche sulla formazione dei pastori, sulla riorganizzazione del territorio, che significa anche accorpare o chiudere delle chiese. Si affronta dunque la fine di una comunità ma con speranza e con la consapevolezza che noi rimaniamo degli strumenti attraverso cui lo Spirito di Dio lavora.

Questo ci solleva dal peso di voler risolvere tutti i problemi della chiesa. Le Scritture, infatti, ci dicono che siamo chiamati a libertà, che però non deve diventare un giogo. Gesù ha detto ai suoi discepoli “Io sto andando via, ma vi lascio lo Spirito”. Ecco, in questa libertà c’è un accompagnamento che ci rassicura e ci sostiene.

Foto Anna Lami