paschetto

Una fraternità reale e impegnativa

Le sedute del Corpo pastorale si sono aperte giovedì pomeriggio 19 agosto con la lettura del Salmo 1: il primo salmo, la porta del Salterio che riapre il giardino da custodire e lavorare, chiamando beato chi ci passa, facendolo prosperare come un albero. «L’Eterno è il solo mio pastor» salmeggia fiducioso l’intero Corpo pastorale, invocando la guida di Colui che chiama alla beatitudine. L’albero al centro dell’abside nell’Aula sinodale, dipinto asciutto privo di ruscelli, viene annaffiato dal canto del repertorio del centro ecumenico di Agape The river is flowing, che riporta l’intero Corpo pastorale nei tempi fluidi della postmodernità, e lo trascina «down to the sea», verso un grande mare non meglio definito. Una confessione trinitaria sia di peccato sia di fede argina questo flusso. Poi la parola pronunciata e predicata dal presidente, pastore e moderatore Eugenio Bernardini.

Semplicemente la lettura del giorno, tratta da Un giorno una parola, quale l’esortazione agli anziani nella I Pietro (5,1-5): «… pascete il gregge di Dio che è tra di voi, sorvegliandolo, non per obbligo, ma volenterosamente secondo Dio; non per vile guadagno, ma di buon animo; non come dominatori di quelli che vi sono affidati, ma come esempi del gregge…»: i ministri della Parola «postmoderni» non fanno fatica a mettersi nei panni della seconda generazione cristiana che cerca di dare corpo ai principi dell’Evangelo di Gesù Cristo nel proprio tempo. Il Corpo pastorale, cresciuto nella disciplina sinodal-prebiteriana, si riconosce nell’esortazione a una fraternità, né formale né puramente verbale: ci chiamiamo fratelli ma poi uno è più importante dell’altro; bensì una fraternità così reale da costare fatica, anche quella del confronto e della discussione. Il Corpo pastorale, (ri)formato in questa visione apostolica della chiesa, si riconosce altrettanto nell’esortazione alla diversità dei doni che si articola nella diversità dei ministeri, e cerca di custodire tale proposta alternativa nella società, lavorando perché essa diventi altrettanto fraterna. Il canto È la mia storia, è la mia fe’ sigilla questa identità. Un corpo unico che intercede e prega con e come Gesù il Padre nostro e invoca la sua benedizione.

Poi il pastore Sergio Manna introduce al tema: «Relazioni pericolose. Quando la relazione di cura diventa una relazione malata». E la segreteria del Corpo pastorale decide di affrontare quest’argomento delicato a porte chiuse. Non c’è niente da nascondere, non si parla di casi concreti. Un argomento che parla alla proprio coscienza, che richiede la consapevolezza di se stessi e dell’altro, la risposta alle domande bibliche rivolte ad Adamo (dove sei?) e a Caino (dov’è tuo fratello?) Il Corpo pastorale si interroga su quali strumenti darsi per evitare ogni forma di abuso del proprio ruolo di pastore. Possono incidere tanti fattori della propria biografia: disturbi affettivi o di personalità, una sessualità non appagata, eccessivo stress oppure scarsa consapevolezza del proprio limite. Evitare il confronto, nessuna supervisione, sfuggire alla domanda dove sei? buttandosi nel mare non meglio definito di un lavoro totalizzante e auto esaltante, spinto da una cultura che cerca piuttosto lo straordinario, ciò che va oltre la normalità e la professionalità, che fa colpo ma non corpo. Una cultura che accomuna l’antichità classica e l’epoca dei mass media. La sobrietà evangelica richiama, allora come oggi, all’ordinario, a mantenere le distanze, a limitarsi quale sinonimo del vivere una vocazione., ovvero all’autocontrollo quale dono dello Spirito santo.

Nella seconda parte del pomeriggio si ascoltano le relazioni delle varie commissioni (ministeri; permanente studi; minori), del progetto di scambio formativo con la chiesa presbiteriana degli Usa (Effe) e il resoconto dell’annuale autovalutazione della propria formazione da parte dei pastori e delle pastore. In fondo tutto gira attorno al concetto della coscienza del proprio limite. Timoteo deve lavorare, formarsi e sottoporsi alla valutazione fraterna, per custodire il buon deposito della fede, entro i suoi limiti creaturali.

Foto P. Romeo