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Mettere al centro i diritti del detenuto

Il calo dei reati annunciato dal ministro Alfano (-9,2% rispetto al 2014) è senz’altro una buona notizia e si accompagna a una generale decrescita della popolazione detenuta: infatti oggi le persone private della libertà sono circa 52 mila, rispetto alle 68 mila del 2010. Purtroppo, invece, non sono calati i suicidi in cella.

Quando si parla di carcere, il dibattito sembra sempre arenarsi sui numeri – il sovraffollamento degli istituti di pena, i detenuti stranieri, i reati in crescita o in diminuzione – mentre si dimentica l’individuo con la sua storia personale, la pena da scontare ma anche la sua necessità di comprenderla e di inserirla in un orizzonte di senso. Il carcere livella ogni condizione e lo fa verso il basso: in Italia si è dovuti arrivare a uno stato di emergenza – con la sentenza Torreggiani dell’8 gennaio 2013 la Corte europea dei diritti dell’Uomo ha giudicato la condizione dei detenuti “degradante”, una violazione degli standard minimi di vivibilità – per costringere le istituzioni a mettere mano alla situazione. Gli Stati generali sull’esecuzione penale voluti dal Ministero della Giustizia sono il primo tentativo di riordinamento generale del sistema carcerario dal 1975, uno studio che, attraverso 18 tavoli tematici, coinvolge direttamente gli operatori, dalla polizia penitenziaria agli educatori, agli assistenti sociali, a chi ha compiti amministrativi o di direzione e di coordinamento del sistema. Una riflessione globale che coinvolga la società sulle domande che la reclusione pone, fra sicurezza e condizioni dignitose della detenzione, nella speranza che i risultati vengano poi recepiti dalla politica.

Al tema del carcere è stata dedicata, sabato 22 agosto, la settima edizione dell’appuntamento presinodale della Csd “Frontiere diaconali”, dal titolo “Carcere, cappellania e misure alternative”, sull’impegno che le nostre chiese e le opere diaconali possono mettere in campo per sostenere chi si trova a scontare una pena. In questo senso è fondamentale anche il ruolo dei cappellani, pastori e laici che, gratuitamente, in virtù delle Intese, offrono accompagnamento spirituale ai detenuti.

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Francesco Sciotto

Nell’occasione abbiamo approfondito il tema, in dialogo con il pastore Brice Deymié, responsabile della Commissione Giustizia delle Chiese protestanti francesi e segretario europeo dell’Ipca (International Prison Chaplains Association), e Francesco Sciotto, pastore a Pachino e coordinatore del gruppo di lavoro sulle carceri della Fcei.

«Siamo sempre più bravi a incarcerare le persone e lo facciamo sempre di più: oggi siamo di fronte a una globalizzazione del carcere, mentre si abbandonano altre forme di regolarizzazione della devianza», ha esordito il pastore Deymié all’incontro pubblico. «C’è una differenza fra paesi cattolici e protestanti, che hanno due diverse concezioni della pena: una espiatoria e l’altra utilitaristica. Secondo la visione protestante, la pena deve essere utile per la società, perché la persona deve uscire edificata dal carcere; è in sostanza una visione “capitalista”. Si tratta di paesi molto creativi nel concepire il sistema penitenziario: l’inconveniente è che in questo modo l’individuo è annegato nel meccanismo del corpo sociale. Il sistema espiatorio considera invece che la pena deve essere innanzitutto una punizione e una sofferenza che lo Stato applica al singolo; un regime punitivo che in seguito viene attenuato. Questo sistema può funzionare soltanto se la persona capisce cosa sta vivendo e reagisce, cosa che spesso non avviene nelle condizioni di promiscuità date dal sovraffollamento degli istituti: mancano quindi l’autocoscienza e la riabilitazione. Il ruolo della cappellania cambia a seconda del modello in cui siamo inseriti».

Conosciamo i problemi degi istituti di pena in Italia. Qual è la condizione del sistema penitenziario in Francia?

Brice Deymié: «Bisogna distinguere fra le Maisons d’arrêt, che accolgono i detenuti in attesa di giudizio o quelli che devono scontare una pena inferiore a un anno, e i Centri di detenzione centrale. Le prime sono sovrappopolate, con problemi di violenza e inattività dei reclusi, mentre nei Centri le cose vanno decisamente meglio, sia in termini di numeri – su 60mila detenuti, 40 mila sono nelle Maisons d’arrêt – che come attività culturali e di socializzazione. Oggi poi si tendono a costruire universi concentrazionari, grandi istituti di pena che ospitano anche 700 persone, fuori dalle città, estromettendo di fatto dalla società chi deve espiare una pena. Un altro problema è che non esistono nel nostro sistema diversi livelli di detenzione: si rinchiude allo stesso modo l’omicida pericoloso e il ladro di biscotti. Non ci sono geometrie variabili».

Francesco Sciotto: «I sistemi italiano e francese in realtà si somigliano molto. Anche da noi gran parte della pena viene scontata nelle Casa circondariali, che si possono paragonare alle Maisons d’arrêt. Sono questi i luoghi dove la condizione dei reclusi è più difficile, per l’affollamento delle celle, l’assenza di progetti culturali e perché la socializzazione è minata dal problema della promiscuità. Oggi il carcere si è decongestionato grazie alla sentenza Torreggiani, che ha portato i 45 giorni di permesso, concessi ogni sei mesi di detenzione, a 75, con un netto miglioramento anche della qualità della vita dei singoli. Purtroppo a questa novità non è seguito un altro intervento sull’esecuzione penale esterna; non si è investito su come dare senso a questi 75 giorni fuori dalle mura della prigione».

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Francesco Sciotto e Brice Deymié

Il carcere può essere quel luogo di rieducazione auspicato dalla Costituzione?

F.S.: «La pena deve essere rieducativa e non il carcere, per questo dobbiamo pensare a misure penali che facilitino la rieducazione. La maggior parte dei detenuti italiani potrebbe avere un luogo alternativo dove scontare la pena, perché il carcere strutturalmente fatica ad essere un luogo di cambiamento. In questo senso la giustizia riparativa può essere una parte del percorso da fare, perché punta a ritessere un legame sociale che è stato spezzato. Dove ha funzionato, in Belgio o in Nord America, non è stata una strada alternativa alle pene ma un percorso parallelo, che è servito molto alle vittime. Dobbiamo pensare a un sistema plurale di intervento».

B.D.: «Purtroppo si presuppone che il detenuto sia capace di gestire da solo la sua condizione in prigione quando di fatto non è riuscito a farlo in società e la società stessa non è capace di farlo; oggi gli istituti di pena sono semplicemente posti dove si fanno convivere persone diverse e si guarda cosa succede. Sono laboratori di gestione del conflitto».

Qual è la funzione della cappellania in questo sistema?

F.S.: «Dobbiamo distinguere il ruolo del cappellano e il servizio che la chiesa può offrire. La cappellania assicura un’assistenza spirituale nelle carceri, una relazione di aiuto di carattere pastorale. Per troppo tempo la religione è stata parte del trattamento penitenziario, tanto che la chiesa è diventata un pezzo della struttura punitiva. Invece dobbiamo ribadire che la pena riguarda lo Stato, e che il detenuto, come chiunque altro, deve poter vivere la dimensione spirituale se desidera farlo.  Le chiese invece possono fare tante cose, accordandosi con le istituzioni pubbliche per trovare spazi e tempi di pena differenti, come già accade nei nostri istituti di Firenze o Palermo, che accompagnano i detenuti a fine pena in strutture diverse dal penitenziario».

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Brice Deymié

Negli Stati Generali del Ministero della Giustizia non si parla mai però di religione. Eppure in Italia il 30% dei detenuti è di fede islamica e non ha alcuna assistenza religiosa. Come si può affrontare la questione? In Francia che cosa succede?

B.D.: «La legge sulla separazione fra Chiesa e Stato del 1905 prevede che le religioni riconosciute abbiano moltissimi diritti all’interno del carcere. Come cappellani possiamo andare ovunque, abbiamo le chiavi delle celle e la possibilità di incontrare anche chi è in isolamento. Io sono interlocutore officiale del Ministero della Giustizia sul tema e quindi è chiaro che la religione in Francia ha un ruolo ufficiale in tutte le discussioni ministeriali che concernono la pena. L’Islam pone molte questioni sul ruolo del cappellano: l’amministrazione penitenziaria vorrebbe far fare al cappellano il ruolo di pacificatore ma per noi è importante mantenere la nostra autonomia. Di fatto viviamo su un crinale: dobbiamo aiutare a mantenere l’ordine o siamo totalmente indipendenti? Cosa ci si aspetta da noi? È una questione ecclesiologica. Per i musulmani non esiste la figura del cappellano, e nemmeno la diaconia come organizzazione ecclesiale; per loro non possiamo che essere funzionari dello Stato ma come cristiani noi invece siamo inviati dalle chiese e non dallo Stato. La domanda è cruciale».

F.S.: «Da noi invece il pastore incontra il detenuto nella stanza dell’avvocato, luogo neutro che parla d’altro, e non nella sua “cella casa”, un posto in cui si sente più a suo agio. In Italia la questione religiosa non viene considerata centrale nella vita del detenuto, perché più in generale al centro non vengono mai messi i diritti dei detenuti. Forse dovremmo fare un passo indietro come chiese e chiedere al Ministero della Giustizia di consentire al detenuto di avere un accompagnamento religioso, così come ha diritto alla salute. La nostra domanda dovrebbe essere: di cosa ha bisogno la persona incarcerata per vivere meglio? L’Ipca e la Fcei stanno organizzando un importante convegno su carcere e minoranze, che si terrà a Roma dal 29 febbraio al 3 marzo 2016, in cui si proverà a riflettere proprio sugli strumenti e le possibilità che le minoranze hanno per essere uno sprone al dialogo e non un’ulteriore gabbia identitaria».

Foto Anna Lami | Disegno di copertina di Marco Rostan