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Complementari, non antitetici

Sono trascorse diverse settimane dalla storica visita di Papa Francesco alla Chiesa valdese di Torino. Proviamo a comprendere qualche cosa in più della figura di Francesco interrogandoci su di lui e sul ruolo del suo pontificato con don Cristiano Bettega, direttore dell’ufficio per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Conferenza episcopale italiana.

Papa Francesco ci ha abituato a una gestualità e a un uso della parola accoglienti, inclusivi e molto fraterni. Per molti una rottura rispetto al pontificato precedente. Tuttavia il «non mediatico» Ratzinger comunicava una forza di pensiero e ragionamento, oltre che di fede, profondissima. Le sue stesse dimissioni sono un gesto che oserei definire tragico, proprio nel senso della tragedia greca, di un conflitto che non si ricompone. Se con Ratzinger siamo nel regno dell’austerità e del rigore morale, con Francesco siamo in quello di una disposizione all’incontro e all’apertura verso l’altro che suscita l’entusiasmo dei media e dei fedeli. Ma dietro questo entusiasmo si prospettano delle novità sostanziali? O questa disposizione è già di per se stessa una rivoluzione?

«Credo che siano vere entrambe le osservazioni anche se, personalmente, al termine “novità” preferirei il concetto di “continuità in uno stile nuovo”. E cioè: i gesti, la spontaneità, le attenzioni agli ultimi cui papa Francesco ci sta abituando credo non sarebbero pensabili oggi senza la “forza di pensiero e di ragionamento” cui papa Ratzinger ha dedicato il suo servizio. In fondo, ciò su cui oggi punta l’attenzione papa Francesco è lo stesso nocciolo fondamentale e inalienabile su cui hanno insistito Benedetto XVI ieri e tutti i papi usciti dal Concilio Vaticano II: ovvero la centralità del Vangelo di Gesù Cristo, di quel Maestro e Signore, cioè, che è insieme “Gesù” e “Cristo”. Parlare del Figlio di Dio come “Cristo” significa porre l’accento sulla sua divinità, sul suo essere Messia, inviato dal Padre; significa cercare di andare a riscoprire la verità e l’attualità della sua parola di salvezza e ri-scoprire quanto questa parola sia ancora viva e necessaria per l’uomo di oggi; esattamente ciò che ha cercato di fare papa Ratzinger. Parlare dello stesso Figlio di Dio come “Gesù”, invece, significa puntare gli occhi sulla sua umanità, sulla sua carità umile e bella, su tutto quell’insieme di gesti di perdono, di pazienza, di compassione, accoglienza, guarigione, condivisione che ne fanno ciò che conosciamo; cosa che papa Bergoglio sta riportando al centro dell’attenzione di tutti. Allora Benedetto XVI e Francesco, in questo senso, vanno “letti” a mio avviso come complementari, non certo come antitetici. E allora le novità verso le quali papa Francesco sta spingendo la chiesa e il mondo saranno un ritorno al Vangelo, alla sua purezza e autenticità».

Francesco utilizza molte parole forti che bucano lo schermo. Penso, per esempio, alla parola «perdono» rivolta ai valdesi durante la sua visita a Torino. Queste parole sono spesso di casa nella cultura laica, che tende però a banalizzarle. Non vede il rischio di un livellamento «verso il basso» o quella «deriva relativista» contro la quale lo stesso Ratzinger ci mise in guardia?

«Su questo aspetto penso che ciascuno di noi debba continuamente vegliare, e vegliare “a doppio senso”, cioè verso se stessi e verso gli altri; ciò significa quindi che come cristiani siamo chiamati a verificare continuamente la verità di ciò che noi stessi diciamo e di ciò che gli altri dicono. Ecco, credo che papa Francesco abbia chiara davanti agli occhi questa necessità; mi pare un uomo molto concreto e diverse scelte fatte da lui in questi due anni dalla sua elezione lo dimostrano: alla forza della parola papa Francesco sa e vuole accompagnare la forza del gesto concreto. Anche qui, mi sembra che Francesco sia in un certo modo la sintesi di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI: papa Wojtyla era senza dubbio l’uomo dei grandi gesti, l’uomo che ha fatto di piazza San Pietro e di ogni piazza in giro per il mondo un immenso palcoscenico, da cui proclamare la bellezza del Vangelo; papa Ratzinger è stato invece (ed è ancora!) l’uomo del pensiero, lucido, profondo e raffinato come pochi altri nella storia del cristianesimo, e del pensiero si è servito per rimettere Cristo al centro della vita. Papa Francesco mi pare stia raccogliendo queste grandi eredità e le stia reinterpretando a modo suo, come è inevitabile che sia».

Viviamo in un’epoca di esasperazione della soggettività, forse per mancanza di idealità. Invece, sia voi cattolici sia noi protestanti, pur con tutti i nostri limiti e con estrema umiltà, ci sentiamo portatori di una verità. Come si concilia questa ricerca di verità e autenticità con il soggettivismo amplificato del nostro tempo?

«Forse più ancora che conciliarsi con il soggettivismo del nostro tempo, la nostra umile e sicuramente anche limitata ricerca di verità si pone come un segno controcorrente, di provocazione: come una sorta di “spina nel fianco”, insomma, il cui compito principale è quello di ricordare che ci sono anche dei valori “altri”, impostati su una logica di dono disinteressato e di servizio generoso, lontani da tutta quella serie di personalismi e di calcoli di mercato, di cui abbiamo piena la testa. L’uomo continuerà a cercare principalmente il proprio tornaconto e il proprio ritorno di immagine, e ogni gesto, anche il gesto più nobile di condivisione, di solidarietà o di riconciliazione, nasconderà dentro di sé il tarlo di una possibile ricerca di affermazione personale. Il Vangelo, al contrario, ci indica un’altra strada: chi vuol farsi grande, si faccia ultimo e si metta a servizio di tutti. Ciò di cui abbiamo bisogno, credo, è di incontrare sulla nostra strada degli uomini e delle donne che proprio su questa logica abbiano costruito la loro vita; cristiani che sappiano farsi prossimo, cercare l’altro per servirlo, accogliere chiunque come un fratello, essere pronti alla riconciliazione incondizionata, cristiani liberi e fedeli al loro Signore; cristiani che siano profondamente uomini e donne, e che lo siano nel tirare fuori quanto c’è di meglio nel proprio cuore e nel cuore dell’altro. E tutto questo però con la gioia dentro al cuore; sì, perché credo che non riusciremo mai a convincerci della bellezza del Vangelo e della sua costante attualità se non sapremo viverlo con gioia. Ciò che conta, nella vita di un discepolo di Gesù Cristo, è lo stesso Gesù Cristo».