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Ripensare il carcere, è il momento giusto

Nella giornata di giovedì 30 luglio 2015, l’associazione Antigone, che si occupa da trent’anni di diritti e garanzie nel sistema penale, ha presentato il pre–rapporto 2015 sulle condizioni di detenzione in Italia.

La tendenza nei nostri istituti di pena è quella di una riduzione del numero di detenuti e un progressivo superamento dell’emergenza legata al sovrappopolamento, ma i numeri di per sé non possono raccontare una realtà così complessa e frammentata, fondata su muri che dividono nettamente il dentro dal fuori su piani che vanno molto al di là di quello fisico.

I tempi sono maturi per una riforma

«Con il miglioramento della situazione carceraria sul piano numerico diventa concreta la possibilità di una riforma generale del sistema e una riscrittura globale dell’ordinamento penitenziario e delle regole fondanti della vita carceraria, basata su una norma che ha recentemente compiuto quarant’anni e che ha sicuramente bisogno di essere ripensata dalle basi. Una riforma che abbia il coraggio di rivoluzionare il sistema, che non si limiti, dunque, alla rettifica di alcuni aspetti in un impianto ormai logoro.

Si tratta di una posizione che, almeno in parte, sembra essere stata fatta propria dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che ha avviato gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale con l’obiettivo di ragionare al di là dell’emergenza e provare a ideare, come si legge nel comunicato del 19 maggio con il quale si dava il via all’iniziativa, «un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere, più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto». Proprio per questa importante occasione, l’associazione Antigone ha stilato una lista di 20 proposte per riformare il sistema carcerario. Ne parliamo con Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone.

Prima di tutto, vorrei provare a cogliere l’impianto generale di queste 20 proposte

«La premessa da fare riguarda soprattutto il contesto in cui nasce questo ragionamento: il nostro sistema penitenziario ha sofferto un deterioramento del suo impianto nel corso degli anni Novanta sulla scia di emergenze di tipo securitario. Negli ultimi mesi per l’emergenza sovraffollamento si sono susseguiti una serie di interventi, anche questi emergenziali ma di segno opposto, che hanno ridotto notevolmente il numero dei detenuti e hanno provocato una serie di miglioramenti».

Miglioramenti che sono venuti anche in seguito alle sentenze degli anni scorsi, che punivano l’Italia per inadempienza…

«Sicuramente. Però anche questo si è inserito su un’emergenza. Il legislatore, il governo, ha ritenuto che fosse giunto il momento di fermare questa corsa all’emergenza e pensare a una riforma dell’ordinamento generale del sistema che armonizzasse anche tutte le novità che erano arrivate. Noi ci inseriamo in questo processo, nel senso che ci sono temi a cui teniamo da tempo e che ci farebbe piacere che entrassero a far parte di questa discussione; vorremmo che questa occasione fosse un’opportunità per ripensare realmente il sistema dell’esecuzione delle pene, per intervenire su tutti i problemi che il sistema vive da tempo».

Ci sono tre termini che spiccano nella prima delle 20 proposte, ovvero “dignità”, “responsabilità” e “normalità”. Proprio la normalità è un punto chiave: come creare spazi che non siano innaturali ed esclusivamente punitivi?

«L’idea è semplice e non è nostra, viene dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, dunque dalle norme internazionali a cui ci siamo impegnati ad aderire e con le quali orientare l’esecuzione della pena.

L’idea di normalità poggia sulla convinzione che la vita della persona detenuta – o comunque della persona in esecuzione di pena – debba essere più normale possibile, compatibilmente con la privazione della libertà, per cui tutto ciò che è necessario per eseguire la privazione della libertà può legittimamente far parte della pena, mentre tutto ciò che non è necessario, invece, dev’essere rimosso affinché l’esperienza della detenzione sia il più possibile simile alla vita normale.

Questo discorso viene portato avanti sia per una ragione di principio, sia per una ragione pratica, perché lo scopo della pena dev’essere la risocializzazione, il ritorno in società. Vivere “in un altro pianeta” per cinque anni della propria vita non è la migliore delle premesse per reinserirsi in maniera facile e indolore nella società da cui si proviene.

Nella pratica, il principio di normalità significa, per esempio, cercare di svolgere in carcere un lavoro che somigli, per organizzazione e per ritmi, ad un lavoro che si svolge fuori. Infine il principio di normalità riguarda anche la famiglia: la legge italiana dice che bisogna mantenere dei rapporti con i propri familiari, ma questi rapporti si svolgono sempre più in un contesto innaturale, segnato dalla struttura carceraria, mentre dovrebbero essere il più possibile normali, simili cioè alle relazioni che il detenuto intratteneva e che tornerà ad avere, una volta finita la pena.

Bisogna mettersi nella prospettiva per cui l’obiettivo finale è quello di un ritorno alla società che prima o poi dovrà esserci e che spesso è molto problematico. I tassi di recidiva ci dicono che il carcere non è uno strumento molto efficace al momento per favorire il ritorno alla società».

Eppure non mancano le alternative al carcere inteso in senso stretto. Tra i 20 punti parlate della necessità di riformare l’esecuzione penale esterna. A vostro parere, quali sono le debolezze in questo senso?

«Tutti noi, a livello di società italiana, vediamo la pena detentiva come la principale e ovvia risposta al reato, e le misure alternative come qualcosa di un po’ esotico, strano. Da questo punto di vista abbiamo una cultura un po’ arretrata: in altri sistemi le alternative alla detenzione sono più ampie e viste come uno strumento normale di risposta al reato, anche perché ogni reato è diverso dagli altri, le persone sono tutte diverse, e ciascuna situazione ha bisogno di una risposta, la più adatta possibile, a quella situazione: in questo le pene alternative sono uno degli strumenti con cui ordinariamente si risponde al reato. Il discorso però non può dimenticare le risorse finanziarie del sistema per le misure alternative, che sono evidentemente risorse “di serie B”; anche il personale carcerario percepisce il proprio ruolo come secondario. Dunque, il primo problema è proprio questo: dare al sistema delle alternative alla detenzione la pari dignità rispetto all’esecuzione della pena».

Un tema del quale ci siamo occupati anche in passato e che viene sottolineato anche dalle vostre proposte, è quello dei diritti religiosi in carcere. La cappellania carceraria è un aspetto dell’esecuzione penale di cui la chiesa valdese si sta occupando da anni e che oltretutto rappresenta un elemento di connessione tra il mondo interno e quello esterno, sul piano relazionale e su quello spirituale. Allo stato attuale, questo diritto viene garantito in modo adeguato?

«La situazione che vediamo e che denunciamo è soprattutto quella di una grande disparità tra i detenuti di confessione cattolica e tutti gli altri, perché mentre la presenza del cappellano è garantita pressoché ovunque per quanto riguarda il cattolicesimo, per le altre confessioni questo diritto viene meno. Addirittura, in certi contesti non se ne parla neppure. La sensazione, anche per i diritti religiosi, è che al centro del nostro sistema non ci sia il diritto del detenuto, ma soltanto la prerogativa di una determinata confessione ad entrare in carcere sulla base di una posizione di forza che la chiesa cattolica si è conquistata nei suoi rapporti prima con lo Stato e poi con le istituzioni della giustizia. La centralità va data invece al diritto dell’individuo».

Il ministro della Giustizia si sta dimostrando un interlocutore adeguato, anche in relazione alle vostre proposte?

«Non vorrei essere presuntuoso, ma diciamo che queste non sono solo le nostre proposte, sono necessità di fatto che si sono imposte in questi anni e che si stanno imponendo. La corsa ad avere sempre più detenuti, la corsa alla “giustizia col volto truce” è fallita anche finanziariamente. Infatti è costosissimo pensare di rispondere a tutti i problemi col carcere, prima di tutto perché il carcere è una risposta costosa in sé, e poi è costoso perché provoca violazioni dei diritti, che generano condanne, che a loro volta sono costose. In tutto il resto del mondo è diventato normale introdurre accanto alla pena detentiva un programma di altri strumenti e in Italia ora, anche in seguito alla vicenda legata alla condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo in relazione al sovraffollamento, sta finalmente nascendo quello che in qualche modo e in qualche misura a noi sembrava ovvio si dovesse fare. Insomma, siamo soddisfatti di quello che sta succedendo e speriamo sia l’inizio di un processo. Sappiamo che non ci sono ancora tutte le risposte a molti problemi, però ci rendiamo conto che c’è l’intenzione seria di affrontare un tema che è politicamente difficile, perché elettoralmente paga assai poco».

Anche perché un cambio di paradigma sul sistema carcerario non occupa soltanto una legislatura, ma occupa verosimilmente un generazione. È molto difficile far passare a livello culturale il messaggio che chi paga una pena prima di tutto non dev’essere afflitto oltremodo da questa pena, e poi soprattutto una volta pagata deve poter rientrare nella società, altrimenti il sistema fallisce. C’è, in prospettiva, la possibilità di cambiare la percezione popolare della pena come qualcosa di esclusivamente afflittivo?

«La dimensione pragmatica dei costi, della recidiva, secondo me aiuta abbastanza in questo. Rendersi conto che il carcere è uno strumento costoso, di cui tutti paghiamo i costi, è un passo importante. Il fallimento del carcere produce esclusione e criminalità, e anche di questo costo sociale paghiamo tutti il prezzo, quindi diciamo che una risposta più adeguata al reato e più capace di creare inclusione e reinserimento è un vantaggio per tutti. Questo è un primo elemento che penso e spero possa entrare anche nel vocabolario dei media che fino ad oggi per lo più hanno parlato del carcere come del luogo in cui va “rinchiuso” il detenuto per poi gettare via la chiave. Probabilmente anche i media hanno una responsabilità in tutto questo, e in qualche modo anche l’atteggiamento della politica – che tende ad assecondare la pancia piuttosto che cercare di dialogare con la testa dell’elettorato – a sua volta legittima queste opinioni di pancia».

Foto di Marco via Flickr | Licenza CC BY 2.0