beirut

La banalità del bene

George ha undici anni e secondo i suoi insegnanti è un allievo molto promettente. Mentre i suoi genitori raccontano di come sono arrivati a Beirut da Aleppo, in fuga dalla guerra, ascolta in silenzio ma quando l’interprete ha un’esitazione, con un sorriso timido e la voce appena accennata, suggerisce la parola corretta in inglese. In famiglia sono in cinque e vivono in tre stanze minuscole nel quartiere armeno di Bourj Hammoud, costruito dagli esuli scampati al genodicio del 1915. L’affitto, in nero, costa l’equivalente di cinquecento dollari: il padre non ha un’occupazione e i due figli maggiori, che in Siria andavano all’università, si arrangiano con lavori provvisori.

Dall’inizio della guerra in Siria, quasi due milioni di profughi si sono riversati in Libano; un numero enorme, soprattutto se si considera che tutto il paese conta appena quattro milioni e mezzo di cittadini residenti: gli altri, i siriani, i 250mila palestinesi e gli altri migranti che arrivano fin qui in cerca di una minima speranza di vita sono soltanto degli «invisibili». Nella capitale si assiepano nei quartieri che circondano il centro e il pretenzioso downtown affacciato sul mare, dove si continuano a costruire palazzi imponenti, perlopiù vuoti, nel tentativo di far diventare Beirut la Abu Dhabi del Mediterraneo. Ma, a una ventina d’anni dalla fine della guerra civile, rimangono ancora intatte le contraddizioni che lacerano il paese, a partire dal confessionalismo che inchioda il sistema statale a una ripartizione forzata fra le varie fazioni e che di fatto, tra l’altro, impedisce l’elezione del presidente della Repubblica da 14 mesi. In una sostanziale assenza di giustizia sociale, spesso sono le istituzioni religiose e le organizzazioni non governative a fornire i servizi essenziali alla parte più fragile della popolazione, anche se questo ha in molti casi contribuito ad aumentare le divisioni sociali e confessionali che si vorrebbero abbattere.

Lo Stato infatti non riconosce alcun diritto a chi non è libanese: né scuola, né assistenza sanitaria, né lavoro e nemmeno una casa. Se George può studiare è grazie a un progetto della comunità armena – finanziato in parte anche dall’otto per mille della chiesa valdese – che si occupa di inserire i ragazzini appena arrivati nella Sophia Hagopian School, la scuola armena (privata) del quartiere, aiutando al contempo anche le famiglie.

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Un’altra iniziativa sostenuta dall’otto per mille della chiesa valdese, sempre nel quartiere armeno, è il progetto “Philemon” della National Evangelical Church, un centro evangelico per i piccoli da 1 a 4 anni, voluto dal pastore Robert Hamd, per far fronte all’emergenza che coinvolge i bambini che ancora non vanno a scuola e che gli adulti non possono accudire perché costretti fuori casa tutto il giorno. «Le fasce più deboli della popolazione hanno occupazioni mal pagate che permettono loro appena di sopravvivere – spiega il pastore Hamd – e se un tempo nella famiglia allargata libanese a lavorare erano solo gli uomini, mentre le donne stavano a casa, ormai tutti sono costretti a cercare di guadagnare qualcosa: padri, madri, anche i nonni. Così i bambini in età prescolare vengono lasciati da soli o consegnati a scuole illegali che li maltrattano». Una tortura a cui molti genitori si rassegnano perché non hanno alternative: le rette degli asili, anche quelli pubblici, costano troppo care. L’educazione in Libano è un privilegio per chi se la può permettere. La maggioranza della popolazione – non soltanto i siriani ma anche i migranti e i cittadini poveri – è di fatto schiacciata da un’economia che non ha mai puntato allo sviluppo ma che è da sempre nelle mani di un’oligarchia corrotta e legata al potere.

La responsabile del progetto è Nairy Mardirossian, di Aleppo: è uscita dal suo paese nel 2013 per il matrimonio del fratello e non è più rientrata. «Il Signore ha voluto che la mia famiglia se ne andasse dalla Siria appena prima che si intensificassero i bombardamenti», dice. Ben pochi, purtroppo, possono raccontare lo stesso. Le donne che portano i figli al centro hanno quasi tutte una storia di violenza subita alle spalle, nel lungo cammino che le ha portate a Beirut, a cui si è aggiunto lo sfruttamento lavorativo una volta arrivate in Libano. Una di loro ogni giorno fa chilometri a piedi – all’andata e al ritorno – per permettere alla sua bambina di frequentare la scuola evangelica: «Per tutte loro – dice il pastore Hamd – l’unica cosa che conta è offrire ai figli un’opportunità diversa».

La stessa cosa la ripete Seta Margossian Hadeshian, responsabile del dipartimento Diaconia e Giustizia sociale del Mecc, il Consiglio ecumenico delle chiese in Medio Oriente. Seta e il suo staff si spendono ogni giorno per aiutare i profughi, che continuano ad arrivare quotidianamente in Libano, nonostante i confini siano chiusi. «Noi armeni sappiamo bene cosa significa dover lasciare per sempre la propria casa con i soli vestiti addosso», commenta.

Perdere tutto e andarsene, per ricominciare da un’altra parte, spesso con un’esperienza traumatica alle spalle, senza prospettive sicure. A guardare Beirut oggi questa sembra essere l’esperienza della maggioranza delle persone, che in un’instabilità assoluta provano a ritagliarsi uno spazio, se pur illegale e precario. Ad Aleppo la famiglia di George aveva un buon reddito, apparteneva alla classe media, ma ogni cosa è stata portata via dalla guerra. In più, come cristiani benestanti – il padre di George è ortodosso, la madre cattolica – erano un bersaglio perfetto per i terroristi. Il padre è stato rapito dall’Isis ed è rimasto prigioniero per un mese sotto continua minaccia di morte: «Ogni giorno mi chiedevano di convertirmi – racconta – ma la difficoltà rafforza la fede, non ho mai ceduto». Hanno venduto tutto l’oro che avevano per pagare il riscatto, e alla fine è stato liberato. Da sei mesi sono finalmente in Libano, in attesa di un visto per gli Stati Uniti che ovviamente tarda ad arrivare. Lo choc per il trauma patito non l’ha ancora superato, e chissà se ci riuscirà mai. Ma George, il suo figlio più piccolo, è sveglio e attento, e in pochi mesi ha imparato l’inglese. 

Foto Stefano Stranges