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Se il carcere non rieduca

Barack Obama ha visitato una prigione federale in Oklahoma diventando così il primo presidente in carica degli Stati Uniti che abbia mai visitato un carcere. Nella sua visita ha incontrato il personale carcerario e alcuni detenuti, parlando di detenzione giovanile e della durezza di alcune pene. Pochi giorni prima, infatti, Obama ha alleggerito le pene di 46 detenuti condannati per reati di droga, e ha parlato della necessità di depenalizzare i reati minori. Un quarto dei detenuti nel mondo è incarcerato negli Stati Uniti. Ne abbiamo parlato con Francesco Sciotto, coordinatore del gruppo di lavoro sulle carceri della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia.

Per la prima volta un presidente Usa in visita a un carcere: non le sembra incredibile?

«È certamente una notizia interessante, perché proviene dagli Usa, dove il tema della pena viene trattato quasi esclusivamente attraverso la detenzione, quindi in modo molto repressivo. Simbolicamente è importante che per la prima volta un presidente abbia fatto il movimento inverso, quello di entrare dentro un carcere e parlare di pena con i detenuti. Mi sembra che il suo discorso sia stato interessante, con una riflessione sul differenziare la posizione di chi ha compiuto i reati e si è trovato trascinato in una situazione di devianza, rispetto invece a situazioni di criminalità organizzata molto più gravi. Mi sembra un tentativo importante e ha un significato simbolico molto rilevante: ora c’è da aspettarsi che la mentalità americana possa cambiare rispetto ai temi della penalità e si possa riflettere, come avviene in altre parti del mondo, sull’applicazione delle misure alternative al carcere: ovvero che la pena resti tale ma che non si usi un solo modo di applicarla».

Qual è l’aspetto più importante di questa visita?

«Uno dei modi più interessanti attraverso cui possiamo leggere questo evento è quello relativo all’aspetto sociale del carcere. Credo anche che Obama abbia fatto questo gesto in un paese dove a finire tra le maglie della giustizia e poi in carcere siano soprattutto gli afroamericani e gli ispanici, affrontando il tema dal punto di vista sociale. L’aspetto dell’errore colpisce maggiormente le fasce della popolazione più svantaggiate, e a finire in galera sono i più poveri e non sempre chi lo merita. Il passo verso il carcere di Obama potrebbe essere utile per socializzare la pena all’esterno del carcere».

La notizia fa venire in mente alcune questioni del sistema italiano?

Il sistema penitenziario statunitense è molto differente da quello europeo, in particolare dei paesi latini dell’Europa, così come il sistema penale. Ma non cambia che il carcere spesso è una sentina dei bisogni sociali e delle situazioni di differenza sociale che ci sono fuori, e attraverso il carcere si gestisce la difficoltà di gestire in maniera costruttiva le differenze sociali. In questo i sistemi penali del mondo si assomigliano, dall’Africa al Sud America ai paesi occidentali. In questo senso gli sforzi fatti dal Governo italiano sulla riflessione sulla penalità, il tentativo di migliorare la legge che abbiamo coinvolgendo le associazioni che se ne occupano da diversi anni, sono interessanti e apprezzabili: vedremo cosa succederà ma si va verso una direzione positiva».

Fino a poco tempo fa il carcere italiano veniva comunicato esclusivamente come sinonimo di sovraffollamento.

«Spesso non si parla di carcere in maniera ampia e approfondita, piuttosto in relazione alle notizie di prima pagina: ma se ne parla di più di prima. Sul sovraffollamento in Italia ricordiamo che il motivo che ha spinto il Governo a metterci mano è stato indotto da altri e cioè una condanna da parte delle istituzioni europee. Alcuni miglioramenti si sono fatti, ma ci sono ancora molti passi da fare. Per esempio in Parlamento è in discussione un inasprimento delle pene sui reati lievi che porterà nuovamente a un sovraffollamento e a un sovraccarico dei nostri istituti: sono temi sui quali bisogna costantemente tenere alta l’attenzione».

Il 70 % di chi esce dal carcere torna a delinquere. Perché?

«Il carcere non rieduca. In questo momento, e non solo per il carcere italiano, i numeri ci dicono che il carcere non ha questa funzione. Riesce nell’intento di isolare i soggetti dalla società e renderli meno problematici ma non rieduca. La questione è cercare di capire come è possibile adottare strumenti integrati tra pena in carcere e fuori, per cercare di abbattere il problema della recidiva. Il sistema dovrebbe fare questo, ma la realtà è che chiudere le carceri da un giorno all’altro è impossibile e bisogna cercare gli strumenti che ci facciano migliorare la condizione di chi si trova in detenzione e diminuire la recidiva. Tra l’altro ci sono anche motivazioni economiche per questo tipo di gestione della giustizia, mantenere un detenuto in carcere costa di più che tentare nuove strade».

Avete in programma un incontro su questo tema nel prossimo mese?

«La Commissione Sinodale per la Diaconia ha avviato dei progetti relativi alle misure alternative, come la casa del Melograno a Firenze o altre iniziative in seno alle chiese battiste, e abbiamo pensato di fare un convegno a tema del carcere. Il 22 agosto, nell’ambito dell’incontro “Frontiere Diaconali” che si svolge a margine del Sinodo valdese, parleremo di carceri in Europa e in Italia, con diversi ospiti. Parleremo ovviamente anche di cappellania carceraria, tema importante di cui il gruppo di lavoro sulle carceri della Fcei si occupa tutto l’anno».

Foto di endamac, Licenza: CC0 Public Domain, by Pixabay